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Transizione 5.0, il piano del Governo deprezza il digitale



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Transizione 5.0, annunciato con in dote 6,36 miliardi di euro, sostituisce il piano 4.0 e lo integra con i tre concetti chiave di sostenibilità, centralità della persona e resilienza. Ma ha meno soldi sul digitale, che è però è ancora lungi dall’essere diffuso nelle aziende italiane

Pubblicato il 1 dic 2023

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



transizione 5.0

La revisione del PNRR fatta dal Governo nei giorni scorsi, insieme alla riformulazione degli obiettivi e delle risorse, porta con sé l’attesa dote di Transizione 5.0, con 6,36 miliardi di euro.

Rispetto ai programmi precedenti di sostegno all’innovazione delle imprese, Industria 4.0, Impresa 4.0 e infine Transizione 4.0, il 5.0 è esplicitamente legato a obiettivi di efficientamento energetico nei processi produttivi.

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Oltre ad avere meno risorse (rispetto ai precedenti 10 miliardi) ne ha quindi meno sul digitale, che però ancora – sulle pmi soprattutto – avrebbe bisogno di una forte spinta pubblica.

Industria 5.0 e Pnrr: a che punto siamo davvero

Per ora siamo di fatto ancora agli annunci perché la declinazione concreta avverrà attraverso un decreto legge che si spera venga pubblicato entro la fine dell’anno per poter partire con i nuovi incentivi già all’inizio del 2024, tenendo conto che gran parte di quelli di Transizione 4.0 sono scaduti alla fine del 2022, con il venir meno delle risorse previste nel PNRR prima versione, quella presentata a Bruxelles dal Governo Draghi.

In attesa di capire meglio i dettagli del nuovo programma, è opportuno ripercorrere i profili principali della questione, nel passaggio dal recente passato (Transizione 4.0) al futuro prossimo che ci aspetta (Transizione 5.0), evidenziando però dei rischi che al momento mi pare siano del tutto passati sotto silenzio nel dibattito di questi mesi, che si è fin qui concentrato quasi esclusivamente sulla dotazione finanziaria complessiva.

Cosa significa Transizione 5.0 e perché si è reso necessario il passaggio dal 4.0

Il passaggio è stato reso tecnicamente necessario dall’opportunità (per non dire necessità) di attingere le risorse da RepowerEU, il piano della Commissione europea originariamente formulato nel maggio del 2022 per rispondere all’invasione dell’Ucraina, rendendo l’Europa indipendente dai combustibili fossili russi e accelerando la transizione ecologica.

Ma del paradigma 5.0 si parla a livello internazionale già da alcuni anni, specie dopo che fu introdotto il concetto di Società 5.0 in Giappone dalla più importante associazione di imprese, Keidanren, nel 2016, a indicare un modello che cerca di tenere insieme lo sviluppo economico con la soluzione di problemi sociali e ambientali.

Come già ricordato in un precedente articolo per Agenda Digitale, è stato però uno studio della Commissione europea, apparso all’inizio del 2021, Industry 5.0. Towards a sustainable, human-centric and resilient European industry, a introdurre il tema nell’agenda di policy europea. Provando a integrare il paradigma 4.0, centrato sulle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, con i tre concetti chiave di sostenibilità, centralità della persona e resilienza.

Già declinati peraltro in molte politiche dell’Unione europea, dal Green Deal all’intelligenza artificiale antroprocentrica e più recentemente alle policy per aumentare la resilienza del sistema produttivo europeo, come il Chips Act, il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act.

Se i primi due concetti erano già piuttosto consolidati nel framework legislativo europeo, il terzo lo è rapidamente diventato dopo il doppio shock del Covid e dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. 

Va però sottolineato che di Industria 5.0, a livello UE, parlano al momento soprattutto documenti e iniziative della direzione generale ricerca e innovazione della Commissione europea, alla quale si deve il paper del 2021 citato sopra e anche un più recente studio, pubblicato nel luglio 2023, su “Industry 5.0 and the Future of Work: making Europe the center of gravity for future good-quality jobs”.

E per ora una delle poche applicazioni concrete è il progetto Sure 5.0 (“Supporting the smes SUstainability and REsilience transition towards Industry 5.0 in the mobility, transport & automotive, aerospace and electronics European Ecosystems”), finanziato sempre dalla stessa direzione della Commissione europea nell’ambito del programma Horizon Europe.

Un progetto senz’altro interessante sulla carta perché prevede per le imprese partecipanti rapporti di valutazione, webinar, roadmap individuali, servizi su misura, eventi di networking e apprendimento tra pari, oltre al supporto finanziario. Ma con impatto limitato a 1000 piccole e medie imprese per un costo complessivo di circa 5 milioni di euro in tre anni.

Italia apripista

Dunque, l’Italia sarebbe di fatto un apripista, almeno a livello europeo, nell’applicazione di un concetto certamente più multidimensionale e dunque complesso di Industria 4.0, che puntava “semplicemente” a rendere le imprese più efficienti e competitive grazie all’uso massiccio di tecnologie digitali. Naturalmente questa non è di per sé una cattiva notizia, anzi potrebbe posizionare il nostro Paese e le sue imprese una volta tanto in un ruolo di leadership ma occorre esserne consapevoli e affrontarlo con la massima serietà. Tenendo conto di alcuni vincoli e della situazione di partenza.

La transizione accidentata da Transizione 4.0 e Transizione 5.0: un 2023 a incentivi ridotti o azzerati

Il piano Transizione 4.0 è stato finanziato nell’ambito della Missione 1 – Componente 2 “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo”, con una dotazione finanziaria di 13,381 miliardi di euro (a cui si aggiungono 5,08 miliardi di euro del Fondo complementare) e l’obiettivo di sostenere la trasformazione digitale delle imprese incentivando gli investimenti privati in beni e attività a sostegno della digitalizzazione attraverso il riconoscimento di un credito di imposta a fronte di: acquisto di beni materiali; acquisto di beni immateriali 4.0 (es. software avanzati); acquisto di beni immateriali tradizionali (es. software di base); attività di R&D&I; attività di formazione 4.0. I beni materiali e immateriali 4.0 soggetti al regime di incentivazione sono specificati nei due Allegati (A e B) predisposti dall’allora Ministero dello Sviluppo economico.

Nello specifico, le forme di sostegno ricomprese nel piano Transizione 4.0 affondano le loro radici nel 2016, con il lancio del Piano Nazionale Industria 4.0, poi diventato Impresa 4.0 prima di essere ribattezzato con il nome attuale, prima dell’ulteriore evoluzione verso il paradigma 5.0.

Dando seguito al décalage previsto dal PNRR, dal primo gennaio 2023 è scaduto tout court sia il regime di favore per l’acquisto di beni materiali e immateriali tradizionali che per le attività di formazione 4.0. Allo stesso tempo, sono stati previsti tagli significativi per l’acquisto di beni strumentali 4.0 (sia materiali che immateriali) così come per le attività di ricerca, sviluppo e innovazione.

Per i beni materiali 4.0, si è stabilito un dimezzamento per tutte le classi di investimento: dal 40% al 20% fino a 2,5 milioni di euro; dal 20% al 10% da 2,5 a 10 milioni di euro e dal 10% al 5% da 10 a 20 milioni di euro (che è il tetto massimo ammissibile). Il taglio è stato ancora maggiore per i beni immateriali 4.0, dal 50 al 20% (fino a un tetto di 1 milione di euro). Mentre è intervenuta ancora la regola del dimezzamento (dal 20 al 10%) per le attività di ricerca di base, industriale e sperimentale. La scure è stata più lieve (ma su aliquote di partenza più ridotte) solo per le attività di innovazione tecnologica “green”, alle quali si applica un credito d’imposta sceso “solo” dal 15% al 10%. Prefigurando in un certo senso il cambio di paradigma verso Transizione 5.0.  

Come Transizione 5.0 potrebbe prendere il testimone da Transizione 4.0 per accompagnare le Pmi nell’era digitale

In effetti, il principale vantaggio di misure fiscali automatiche e di facile accessibilità come quelle contenute nel piano Industria 4.0, diventato poi Impresa 4.0 e Transizione 4.0, è stato quello di favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese (Pmi), che sono proprio i soggetti che hanno bisogno della maggiore spinta per abbracciare con convinzione la transizione digitale (oltre a costituire la stragrande maggioranza delle aziende italiane e dunque il tessuto indispensabile del sistema produttivo italiano). E sono anche quelle meno attrezzate a sfidare le burocrazie ministeriali presentando progetti da sottoporre a una valutazione discrezionale (e che in tempi passati avveniva in tempi certi ai quali seguiva un altrettanto incerta fase di erogazione).

Pur in mancanza di dati precisi e aggiornati che valutino l’impatto avuto dalle diverse misure, in base a quanto scritto anche in precedenza massima priorità andrebbe data ai beni immateriali 4.0, alla ricerca e sviluppo e alla formazione 4.0.

Secondo il décalage delle misure originariamente previste, a partire dal primo gennaio di quest’anno sul primo si è abbattuta una riduzione del 60 per cento, il secondo è stato dimezzato, il terzo addirittura azzerato. Occorre peraltro osservare che la singola utilità dei tre strumenti viene peraltro rafforzata dalla loro interazione. Il fatto che siano tuttora pochissime le aziende in grado di lavorare con i dati e applicare soluzioni di intelligenza artificiale è più da ascrivere alla mancanza di competenze che alla disponibilità dei dati (o di modelli di AI).

E se si aiutano le competenze sia internamente (es. formazione) che esternamente (es. accordi con università e centri di ricerca) e allo stesso tempo si favorisce l’acquisto di software per l’analisi dei dati, si può far fare un salto enorme all’innovazione delle imprese. Soprattutto concentrando gli sforzi sulle piccole e medie imprese e al contempo incoraggiando la crescita dimensionale delle micro-imprese, che come noto evidenziano il massimo deficit di produttività con gli altri Paesi più avanzati.

Sarebbe inoltre da valutare anche una revisione delle tecnologie incluse negli allegati A e B ammessi ai crediti d’imposta (tra le quali ad esempio ancora oggi non figurano le infrastrutture di rete abilitanti le comunicazioni tra dispositivi).

I rischi di guardare troppo in avanti

In base agli elementi al momento conosciuti, Transizione 5.0 è dotato di risorse pari a 6,36 miliardi di euro, di cui però 1,5 miliardi di euro dovrebbero andare ai beni necessari per l’autoproduzione e l’autoconsumo di energia prodotta da fonti rinnovabili. Dunque, rispetto alle previsioni più nefaste della vigilia (4 miliardi di euro), c’è un incremento di poco meno di 800 milioni di euro. Anche se siamo lontanissimi dalle risorse destinate a Industria 4.0 (che in alcuni anni hanno superato i 10 miliardi di euro).

Ma, soprattutto, i vincoli superiori rispetto al passato, indotti dall’ancoraggio dei fondi alla transizione ecologica, rischiano di fatto di ridurre significativamente, anche rispetto ai più magri tempi recenti, i flussi verso la transizione digitale, molto prima che quest’ultima abbia raggiunto un grado sufficiente di sviluppo.

Un esempio lampante sono le competenze, orfane come già ricordato dall’inizio dell’anno di uno strumento ad hoc. Tra le spese ammissibili per godere di crediti d’imposta nell’ambito di Transizione 5.0, dovrebbero rientrare quelle per la formazione del personale ma entro il limite del 5% dell’investimento complessivo e solo per l’acquisizione o il rafforzamento delle skill richieste per la transizione ecologica.

È vero che transizione ecologica e digitale sono spesso definite gemelle e certamente sono caratterizzate da complementarietà. Se il digitale produce maggiore efficienza dei processi produttivi è giusto e per certi versi naturale, anche per le tasche delle imprese, che tra gli indicatori che valutino il raggiungimento degli obiettivi preposti ci siano quelle di performance energetica.

Tuttavia, è del tutto evidente che le due transizioni presuppongano competenze specifiche, solo in piccola parte sovrapponibili. Non riconoscerlo o peggio non prevedere coscientemente strumenti che accompagnino il reskilling e upskilling dei lavoratori in ambito ICT sarebbe uno sbaglio enorme che ignorerebbe gli ultimi posti in classifica occupati dall’Italia a livello europeo sia sulle competenze digitali di base che in quelle avanzate.

Un lusso che evidentemente non ci possiamo permettere. Se dunque abbracciare per convinzione o convenienza il paradigma di Industria 5.0 significa far finta che la transizione digitale sia già pienamente o in larga parte avvenuta e dunque occorra guardare verso nuovi e più ampi lidi questo vorrebbe dire cristallizzare i punti di debolezza del sistema produttivo nazionale nei confronti dei nostri competitor. Almeno nella dimensione digitale, che è però alla base della reale innovazione e competitività di un Paese moderno.      

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