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Lo strapotere delle Big Tech dietro la crisi dei media



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La crisi dei media tradizionali dipende in parte dal calo della domanda (in particolare dall’allontanamento dei giovani dalle news), ma l’altra parte è determinata dalla contrazione dei fatturati pubblicitari e dei margini. In entrambi i casi il ruolo delle big tech è decisivo. La soluzione che si prospetta è di ridurre il potere di mercato…

Pubblicato il 20 giu 2023

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione

Alessandro Longo

Direttore agendadigitale.eu



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E se la crisi mondiali dei media dipendesse, in (gran?) parte dall’eccesso monopolistico di concentrazione pubblicitaria a favore delle big tech? Quest’ipotesi diventa ogni giorno più solida.

Il maggiore editore Usa, Gannet, ha denunciato in settimana Google appunto con l’accusa di concentrazione monopolistica che fa leva sul network e tecnologie di raccolta pubblicitaria dello stesso Google. Una morsa che renderebbe molto difficile per i media competere sul mercato del digital advertising.

Anche l’Antitrust europeo e il Congresso americano hanno fiutato il rischio monopolio e infatti fanno avanzare l’ipotesi che sia necessario spezzare Google , separando il ramo per la raccolta adv.

La crisi dei media

Il quadro è certo preoccupante e potrebbe richiedere soluzioni diverse da quelle, timide, tentate finora.

La fiducia nelle news, dopo l’aumento di interesse determinato dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, sta scendendo, anzi sta riprendendo a scendere dopo una parentesi di rinnovato interesse determinata da quelle due formidabili spinte alla domanda di informazioni. Nel frattempo, le grandi piattaforme hanno “sifonato” i ricavi pubblicitari della stampa determinando la crisi della stampa locale che abbiamo richiamato.

La conferma anche nel nuovo Digital News Report 2023 di Reuters.

  • Da una parte, risulta che le persone fanno affidamento alle piattaforme (social, Google…) per trovare le news, sempre meno sono quelli che vanno su siti e app del giornale;
  • dall’altra la fiducia nelle scelte editoriali non è superiore a quella dell’algoritmo del news feed social e persino si vede una nuova tendenza di giovani che hanno più fiducia nelle celebrity di TikTok anche quando queste danno news rispetto che nei giornalisti.

Fiducia ed economia vanno di pari passo, negativo per l’editoria.

Mentre Google quintuplicava i ricavi della pubblicità, nell’ultimo decennio, i giornali venduti hanno visto scendere i loro ricavi da 49,4 miliardi di dollari del 2005 a 9,6 miliardi di dollari del 2020.[1]

Se non ci sono molte altre alternative, anche i media più importanti, come Washington Post, CNN, Gannett, Vox, Protocol, devono affrontare licenziamenti e ristrutturazioni perché faticano a far quadrare i bilanci in presenza della concorrenza del digitale in generale, ed in particolare del taglieggiamento dei ricavi operato dalle piattaforme.

Scende l’interesse per le news [2]

Non solo i giornali contano meno per l’informazione; ma scende anche in generale l’interesse per le notizie, a favore invece di intrattenimento e contenuti non informativi generati dagli utenti (video).

Nel pieno della pandemia, nell’anno 2021, Reuters registrava una crescita degli accessi alle news, con effetti positivi per quanto riguarda la posizione economico-finanziaria del settore, soprattutto grazie ad un aumento delle sottoscrizioni on line.

Ma l’anno successivo, il 2022, l’interesse per le informazioni diminuiva in modo significativo, accompagnato da una caduta della fiducia nelle stesse. Non tanto il COVID e la dinamica della pandemia, quanto altri argomenti ed in particolare la politica, è il tema che ne fa maggiormente le spese in termini di credibilità.

Figura 1. Proporzione di intervistati che ha avuto accesso alle informazioni attraverso ciascuna fonte nell’ultima settimana. USA

La scomparsa dei media locali

Davanti al Comitato del Congresso sull’antitrust, nel marzo del 2021 il presidente del sindacato dei lavoratori dell’informazione John Schleuss lamentava che tra il 2008 e il 2019 i giornali tradizionali avevano perduto 36.000 posti di lavoro, ossia oltre la metà dei dipendenti[3]. Mentre Tv e radio rimanevano quasi costanti, la crescita maggiore si verificava nei servizi digitali. E, tuttavia, tale aumento non è stato in grado di compensare le perdite della stampa.

Ed ora veniamo ad una delle componenti principali della domanda di connessione, il tempo trascorso sulla rete. Come si vede internet è prevalente di gran lunga sulla Tv, mentre i social media da soli occupano un tempo medio giornaliero inferiore di circa mezz’ora rispetto alla TV, con videogames e podcast che hanno permanenze medie simili a quelle della radio.

Questi dati sono riferiti alla popolazione dai 16 ai 64 anni, ma per fasce d’età la presenza e l’utilizzo di internet sono assai diversi rispetto alle persone in età adulta.

Tra i giovani (16-24) i motivi per restare in rete sono diversi da quelli che motivano la permanenza in rete delle persone in età matura (45-55).

Tabella 1. Principali ragioni per usare internet

Fonte GWI IV trimestre 2022

Età 16-24Età 45-54
trovare informazioni60,1trovare informazioni60,9
contattare amici e famiglia59,3seguire informazioni ed eventi54,6
vedere video e spettacoli57,6contattare amici e famiglia53,8
ascoltare musica54,2imparare a fare cose49,0
studio e formazione52,4vedere video e spettacoli46,6
trovare nuove idee49,1cercare brand44,6
imparare a fare cose49,1trovare nuove idee41,7
seguire informazioni ed eventi47,6riempire il tempo libero40,4
riempire il tempo libero47,1ascoltare musica38,8
giocare41,4cercare luoghi e viaggi38,0

Nella rilevazione troviamo che se la ricerca di informazioni rappresenta, con importanza simile, la prima ragione di connessione ad internet, molto diversa è l’incidenza del seguire le informazioni e gli eventi, che è una attività più simile a quella della fruizione televisiva: questa attività è assai più importante per gli adulti. Un’altra differenza significative la troviamo nel praticare i giochi o nel pianificare i viaggi: quest’ultima attività è l’intrattenimento ludico degli adulti. Infine l’intrattenimento puro (film e musica) è più praticato dai giovani.

Eppure, qualcosa sta accadendo, sia pure ancora in modo marginale: la durata media dell’accesso ad una connessione durante la giornata sta scendendo. Gli ultimi dati ci dicono che in media nel mondo tale durata è pari a 6 ore e 35 minuti, con il nostro Paese che raggiunge le 5 ore e 45 contro oltre 7 ore degli Stati Uniti e 3 ore e 51 minuti del Giappone.[4] Una parte della spiegazione è dovuta all’aumento della velocità delle connessioni.

Big tech: l’idrovora della pubblicità

Che cosa può fare la piattaforma con gli extraprofitti derivanti dalla sua posizione dominante? Può innanzitutto distribuire elevati dividendi o scalare la classifica delle quotazioni borsa, arricchendo i suoi azionisti e i suoi manager, ma anche i suoi dipendenti che avranno stipendi superiori a quelli del mercato. Ma soprattutto gli extraprofitti saranno destinati all’acquisizione di aziende innovative, ed in special modo di quelle che si sono affacciate nel mercato dominato dalla piattaforma o in segmenti di mercato contigui. DoubleClick, AdX, AdMeld sono solo alcune delle acquisizioni che hanno portato Google ad assumere la pozione dominante nel mercato pubblicitario: si trattava, come sostiene il Dipartimento di Giustizia (GOJ) di acquisizioni volte innanzitutto ad eliminare i concorrenti.[5]

E’ meglio comprare che competere” aveva detto Mark Zuckerberg, in occasione dell’acquisto di Instagram e Whatsapp, mentre Apple compra aziende con cadenza settimanale, per non parale di Microsoft.

Lo spezzatino si avvicina?

Lo stesso Dipartimento di Giustizia sta pensando di richiedere, contro questa posizione dominante, lo smembramento dell’AD Manager di Google: non è una strada breve né facile, come insegnano i casi precedenti contro Microsoft, quando nel 2000 una corte federale distrettuale ha condannato Microsoft di dividersi in due aziende diverse, ma la corte di appello federale ha rovesciato questa decisione nel 2001. Le maglie stanno forse stringendosi. Nel 2020 l’Autorità per il marcato e la Competizione del Regno Unito ha rilevato che Google ha “più del 90%dei 7,3 miliardi di sterline del mercato pubblicitario sui motori di ricerca”, mentre un gruppo di siti web e di editori di app ha aperto una class action davanti al tribunale di Appello per la Competizione. Nel 2021 La Commissione per i Consumatori e la Competizione ha concluso che la società aveva abusato di posizione dominante favorendo i propri servizi di pubblicità. L’Unione Europea ha aperto una inchiesta simile e l’autorità per la Competizione in Francia ha sanzionato per 220 milioni Google. Nel 2022 l’Unione Europea ha varato il Digital Markets Act che vieta alle piattaforme di favorire i propri prodotti e servizi, ponendo le basi per potenziali costosi contrasti giudiziari.

Questa posizione dominante impedisce di fatto ai produttori di news di raggiungere i loro utenti senza dover pagare la tassa di big tech. “Le società produttrici di informazione possono tentare di raggiungere direttamente i loro lettori sui social media, ma l’unica strada per raggiungere i propri sottoscrittori sulla grandi piattaforme è di pagare per spingere avanti i tuoi post, altrimenti essi verranno nascosti anche a coloro che li cercano”.[6]

La mancetta ai giornali?

L’equo compenso ai giornali o forme di licensing sui contenuti come quelle che gli editori stanno contrattando con Google e OpenAi per l’allenamento dei chatbot sono alla fine solo mancette come riflette la Columbia Journalism Review 2023.

Serve probabilmente qualcosa di più radicale per salvare la funzione democratica dell’informazione. Una revisione della normativa antitrust.

Le quattro strade possibili per salvare i media

In una brillante sintesi, vengono proposte quattro strade, non in alternativa tra di loro:

  • rompere le grandi aziende tecnologiche in modo che non siano in grado di operare simultaneamente come mercato della pubblicitari e come rappresentante sia del venditore sia dell’acquirente su quel mercato;
  • tutelare la privacy, una scelta che riguarda soprattutto gli Stati Uniti, ma non solo, in modo da eliminare il presupposto per le pubblicità contestuali basate sull’acquisizione più o meno legale dei dati personali;
  • aprire il duopolio Apple-Google degli app store, quello che si porta a casa il 30% del valore aggiunto delle app;
  • riaprire il canale di comunicazione end-to-end tipico di internet, impedendo alle piattaforme di ricattare, con la richiesta della “tassa sulla visibilità” colui che è entrato nella piattaforma e, solo pèer questo motivo, deve avere diritto alla visibilità “non drogata”[7].

Se la crisi dei media tradizionali dipende in parte dai comportamenti della domanda, ed in particolare dall’allontanamento dei giovani dalle news, come abbiamo visto, l’altra parte della crisi è determinata dalla contrazione dei fatturati pubblicitari e dei margini. In entrambi i casi il ruolo delle piattaforme è decisivo.

Il problema dell’abuso di posizione dominante consiste principalmente nella dipendenza che, da un lato, si crea tra il piccolo operatore e la piattaforma abilitante: il primo ormai non sopravvive senza la presenza della seconda. Dall’altro lato, la tariffa monopolistica che la piattaforma riesce a imporre impoverisce il piccolo operatore. E questa è solo la prima parte dell’impatto: l’altra parte è che il monopolista rende impossibile o comunque molto difficile gli ingressi sul mercato di altre piattaforme, ingressi che sarebbero in grado di spingere verso il basso le tariffe allargando il mercato.

Vi sono proposte per restituire peso e importanza al settore delle news, come quelle di imporre una “link tax” alle piattaforme. Ma si tratta di una soluzione debole perché, se rimane il potere monopolistico o l’abuso di pozione dominante, non migliora la condizione di redditività delle piccole aziende e delle aziende produttrici di news in particolare. Une delle caratteristiche di quella condizione del mercato, è che chi ne può disporre trasla, come si dice nel linguaggio della scienza delle finanze, gli oneri propri sui prezzi proprio in ragione del suo potere di mercato: ne pagherebbero il costo i piccoli utenti, rafforzando, paradossalmente, la posizione delle piattaforme.

La vice Procuratore Generale Lisa O. Monaco del Dipartimento di Giustizia ha detto. “Nel perseguire profitti spropositati, Google ha causato gravi danni agli editori e agli inserzionisti online e ai consumatori americani. Questa causa segna un’importante pietra miliare negli sforzi del Dipartimento per ritenere le grandi aziende tecnologiche responsabili di violazioni delle leggi antitrust”.[8]

La via classica che si sta aprendo è quella già sperimentata soprattutto nella storia dell’antitrust americana: indebolire il lato tecnologico all’interno del rapporto di mercato tra produttori di news e piattaforme. Quindi si tratta di ridurre il potere di mercato delle piattaforme, spacchettandole come avvenne a suo tempo per AT&T.

Articolo aggiornato il 22 giugno con la notizia di Gannet

Note

  1. ) Caitlin Chin, It’s the Perfect Time to Break Up Google’s Ad-Tech Monopoly, Center for Strategic and Internartonal Studies, January 31, 2023.
  2. ) Nic Newman, Richard Fletcher, Craig T. Robertson, Kirsten Eddy, Rasmus Kleis Nielsen, Reuters Institute Digital News Report 2022, © Reuters Institute for the Study of Journalism.
  3. ) Pew research Center, Newsroom employess by news industry, 2008 to 2019, April 20, 2020
  4. ) Simin Kemp, Digital 2023 April global statshot report, Datareportal, 27 April, 2023
  5. ) Ivi.
  6. ) Ivi.
  7. ) Ivi.
  8. ) Giuliano Ferraino, L’Antitrust Usa fa causa a Google Monopolio della pubblicità, Corriere della sera- L’Economia, 25 gen 2023.

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