Nel percorso verso la PA digitale serve un “salto” anche per la comunicazione pubblica. Non chiamiamola semplicemente legge, perché di leggi ce ne sono fin troppe: ma nel settore serve un “Codice unico”, che metta in ordine funzioni e professionalità, visto che le prime oggi sono disperse fra norme di diversa origine mentre le professioni sono impegnate in un viaggio affascinante ma piuttosto accidentato, quello dei nuovi profili avviati dai contratti del pubblico impiego stipulati fra novembre 2017 e febbraio 2018 (Funzioni centrali, Funzioni locali, Istruzione e Ricerca, Sanità).
Un Codice Unico che faccia sbarcare definitivamente la comunicazione pubblica al centro della svolta digitale del Paese. Ma c’è una barriera da superare, ed è la vetusta l. 150 del 2000, che — perlomeno sulla carta — ancora oggi regola funzioni e professioni. È per questa ragione che fra i comunicatori e i giornalisti che operano nella PA — dai nuovi profili efficacemente definiti “giornalisti pubblici” — si è diffusa l’espressione “legge 151”, cioè la normativa che viene dopo la 150. La l. 151 è ormai un obiettivo condiviso, perché basato non su un generico anelito di rinnovamento ma su fatti concreti.
Il labirinto che il Codice unico dovrebbe illuminare è quello della “PA trasparente”. Si tratta di un impianto normativo e di una concezione dell’attività pubblica del tutto incentrate sul ruolo del cittadino. Ma, a causa del flop della 150, questo cammino sembra voler fare a meno dei professionisti della comunicazione al cittadino. È come se in un’azienda di automobili mancassero meccanici e designer, o più banalmente chi parla con le persone per informarle, capirne le esigenze e vendere il prodotto. Con la differenza, non secondaria, che nel sistema pubblico il prodotto non si vende, ma costituisce un diritto inalienabile del cittadino–utente–cliente, e non consiste in un’automobile ma in un bene primario della vita che tocca salute, istruzione, lavoro o previdenza.
Comunicazione pubblica: le tappe normative
Nella concezione della PA che si è affermata nell’ultimo decennio (perlomeno dal decreto 150/2009 del ministro Brunetta fino alla Riforma Madia 2015–2017), il cittadino-utente, con i suoi bisogni e i suoi diritti, diventa protagonista.
Da qui l’amministrazione “digital first” imperniata sulla cittadinanza digitale, la spinta sull’Open Government, la trasparenza totale (il cosiddetto “Foia italiano” – Freedom of Informaction Act), la performance misurata con i cittadini, più un consistente apparato di linee guida e circolari, fra cui quelle sulla trasparenza, la performance e le consultazioni pubbliche.
E oggi il percorso è irrobustito dalla linea della ministra della PA, Giulia Bongiorno: puntare sulla valutazione della performance, condivisa con gli utenti, come criterio-chiave della buona amministrazione.
Ad essere messa in soffitta, insomma, è la tradizionale gerarchia fra l’amministrazione-emittente, di impostazione giuridico-formale, concentrata sulla sole procedure e insindacabile nei suoi modi e tempi di lavoro, e il cittadino-ricevente relegato in una condizione passiva. Il cittadino è oggi titolato a verificare la qualità del servizio, valutarne la congruità con il “patto” insito nelle funzioni dell’ente o, meglio ancora, nelle carte dei servizi, e infine contribuire a migliorarlo e re–indirizzarlo. Diventa così “valutatore” delle prestazioni pubbliche, “informatore” — questo specie grazie all’uso sempre più diffuso e raffinato di strumenti interattivi come i social media e le chat — e in ultima analisi “co–decisore”.
Una visione talmente avanzata da rischiare di rimanere… una visione, nel senso di un disegno non ancorato alla realtà. Del resto, non sarebbe la prima volta, nella storia amministrativa italiana, che una nuova idea di Stato si impantana nell’astrazione o nella mancanza di effettiva condivisione. Si potrebbero scomodare gli esiti non soddisfacenti di diversi principi costituzionali, ma non importa andare così lontano, fermiamoci a due degli asset attuali: il digitale e la trasparenza.
Il primo fa riferimento al Codice dell’Amministrazione digitale del 2005, riformato proprio nel 2016 e nel 2017, senza che in 12 anni vi siano state effettive svolte nel lavoro pubblico e soprattutto nella percezione, da parte del cittadino, di nuove potenzialità e nuovi diritti.
La seconda, che si può far risalire alla legge 241 del lontanissimo 1990, ha attraversato le leggi Bassanini e la riforma Brunetta per approdare al decreto 33/2013, che nei suoi tre anni di vita (la riforma Madia del “Foia italiano” data giugno 2016, d.lgs. 97) ha prodotto risultati evidentemente modesti. A venire meno è stato proprio il trait d’union della comunicazione. Un cittadino non informato e coinvolto resta passivo anche quando le leggi lo descrivono come attivo. E fra una legge inapplicata e un cittadino inconsapevole, avrà sempre la meglio la “burocrazia difensiva” (da Carlo Mochi Sismondi) che tutt’al più utilizzerà le nuove norme per istituire nuove cariche e nuovi uffici.
Comunicazione e trasparenza, binomio cruciale
Va notato che di questo processo involutivo i vertici del ministero PA sono ben consapevoli. Non a caso, la circolare sulla Trasparenza della Funzione Pubblica (la n. 2 del 2017) attribuisce enorme rilevanza al “dialogo con i richiedenti” e alla “pubblicazione proattiva”, la quale — dice la circolare — “appare fortemente auspicabile quando si tratti di informazioni di evidente interesse pubblico o che siano comunque oggetto di istanze ricorrenti”.
In pratica, la pubblicazione proattiva consiste in un’erogazione di informazioni anticipatrice della domanda del cittadino e fortemente radicata nei social media, il cui uso è concepito non più come episodico ma come sistematico e professionale. A questo incisivo pacchetto di indicazioni di “trasparenza comunicativa”, lontanissima dai formalismi così tipici della PA, si aggiunge un forte richiamo alle media relations: «Occorre tener conto della particolare rilevanza, ai fini della promozione di un dibattito pubblico informato, delle istanze di accesso provenienti da giornalisti e organi di stampa o da organizzazioni non governative, cioè da soggetti riconducibili alla categoria dei social watchdogs».
Con i social, del resto, si elimina il tradizionale verticismo dell’informazione: grazie a Twitter, Facebook, WhatsApp, Instagram, LinkedIn ecc., non c’è più un’emittente attiva e dominante e un ricevente passivo e indifeso. La nuova comunicazione è interattiva e in tempo reale, e quindi mette tutti sullo stesso piano, trasformando il “quarto potere” di chi detiene le leve dell’informazione in “primo dovere” di informare in modo corretto, tempestivo e trasparente. Altrimenti, “dall’altra parte”, qualcuno può smentirti in 30 secondi, o addirittura anticiparti fornendo le informazioni di interesse pubblico prima e meglio di te.
Siamo di fronte a una potenziale svolta sul punto nevralgico del “front office” della pubblica amministrazione, oggi marginale anche perché regolato da una legge di 19 anni fa, la 150/2000, nata con funzioni didattiche — «illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative, al fine di facilitarne l’applicazione» –, quando il web era ancora a livelli primordiali e nelle amministrazioni i siti erano delle vetrine statiche e in alcun modo interattive.
Comunicatori e giornalisti, la proposta per una “legge 151”
L’impianto della 150 era peraltro sbilanciato a favore dei rapporti con la stampa rispetto a quelli con gli utenti, nonché imperniato su una rigida divisione di ruoli — Ufficio Stampa, URP e Portavoce — piuttosto irreale già all’epoca, e oggi del tutto superata dalla necessità di un lavoro di squadra per gestire al meglio un progetto comunicativo ambizioso come quello delineato dal Foia e dalle altre norme su digitale, performance partecipata e consultazioni pubbliche.
È in questa prospettiva che nella comunità dei comunicatori e dei giornalisti pubblici italiani si è affermata la tensione verso una “legge 151” che realizzi una definizione organizzativa razionale ed efficiente della nuova comunicazione. Un Codice unico capace di superare la dispersione delle energie che spesso oggi caratterizza le attività all’interno delle singole Pa, nelle quali le azioni comunicative sembrano rispondere, più che a disegni strategici, a una sorta di “volontariato istituzionale”.
Molto è già stato studiato ed anche scritto. Un modello ottimale è quello dell’“Ufficio Comunicazione, Stampa e Servizi al Cittadino”, proposto dall’associazione PA Social. In sintesi, una moderna organizzazione della comunicazione pubblica dovrebbe presidiare, con le necessarie professionalità, “5 desk” diversi:
a) i contatti con il pubblico e, per connessione logica, la gestione dell’accesso civico (che peraltro la legge riserva anche agli URP);
b) la redazione delle notizie, il trattamento delle informazioni, i rapporti con i media e la gestione dei social, in cui è compresa l’interazione con il pubblico;
c) le analisi di citizen satisfaction in riferimento alle Carte dei servizi e la rilevazione sistematica del feedback del cittadino, nonché le azioni tese a favorire la partecipazione civica, anche attraverso consultazioni pubbliche regolate;
d) le campagne di comunicazione e l’organizzazione di eventi;
e) la comunicazione interna a fini di circolazione delle informazioni e di team building.
È un unico ufficio per due profili distinti: quello del giornalista pubblico (punto b) e quello del comunicatore (punti a, c, d, e). I nuovi profili sono stati introdotti in tutti i contratti del pubblico impiego, ma vi sono ancora diversi problemi applicativi e interpretativi. La loro articolazione risente in modo esplicito della legislazione vigente, e infatti ripropone una rigida divisione fra comunicazione e informazione che non trova più alcun riscontro nella realtà della comunicazione pubblica e neppure nelle esigenze delle PA.
Informazione al servizio del cittadino
Non a caso, nella distribuzione delle funzioni, i contratti collettivi si muovono in modo piuttosto irrazionale, attribuendo ad esempio i social al “comunicatore” e l’accesso civico “all’informatore”… una chiara spia della difficoltà di separare funzioni che oggi già ci sono, ma soprattutto vanno normativamente concepite e gestite in modo unitario, sia pure attribuendole a professionisti con profili distinti fra giornalista pubblico e comunicatore.
È quasi superfluo rilevare che, dopo un così evidente fallimento (quello della 150), sarebbe opportuno avviare subito il percorso verso la l. 151- Codice unico per la nuova comunicazione, anche per evitare di sovraccaricare una “coda contrattuale” di compiti che non può assolvere.
Oggi il comunicatore e il giornalista pubblico sono — meglio, devono essere — i professionisti che operano sulla frontiera fra PA e utenti finali, per valutare, e se necessario re-indirizzare in modo condiviso la prestazione pubblica. Si tratta di professioni spesso inedite per la PA, legate alla gestione strategica dei social e all’interazione, figure chiave che non possono essere impersonate da giuristi o informatici, perché fungono da “account executive” di una Pubblica Amministrazione che vuole produrre un valore certificato dal gradimento finale. Un valore che, dice la ministra della PA Giulia Bongiorno, sarà decisivo per valutare le prestazioni pubbliche e quindi i dirigenti.
È una missione manageriale che punta all’informazione di servizio come vocazione e all’accountability come esito finale; un’erogazione di notizie che non va “al cittadino” ma è costruita “per il cittadino” e sempre più “con il cittadino”. Un dibattito, insomma, che va avanti ed è stato di scena anche al Forum PA 2019 con numerosi appuntamenti di confronto. Un percorso che ha bisogno di concretezza nel più breve tempo possibile. Il digitale e la comunicazione hanno bisogno di camminare insieme per migliorare la vita quotidiana dei cittadini.