FILOSOFIA E TECH

Video e social, arma a doppio taglio nella lotta per i diritti civili

L’assassinio di Minneapolis riporta al centro il tema della “testimonianza diretta” come strumento di potere e leva epistemologica. Ma una volta di più le nuove tecnologie – dai sistemi diffusi di videocamere all’utilizzo degli algoritmi di identificazione – ribadiscono il trionfo del polimorfismo universale. Un’analisi

Pubblicato il 09 Lug 2020

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

smartphone

I video diffusi sui social hanno avuto un ruolo centrale nella risposta di massa all’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Ma non sempre e non necessariamente sono un’arma contro gli abusi, per ristabilire un piano di verità su cui fare progredire i diritti civili delle minoranze.

La questione è più complessa di quanto sembri.

Assassinio di Floyd e viralità delle proteste

La tecnologia ha mostrato anzi in questo caso al massimo livello la propria duplicità.

  • Molti esperti hanno notato come i video ripresi dalla gente e diffusi sui social, a testimonianza delle brutalità della polizia (nel caso di Floyd e negli altri) è l’ultima incarnazione del ruolo della tecnologia per portare testimonianza (bear witness), unico modo per rendere visibili violenze finora invisibili.  E’ cominciato nell’Ottocento con le fotografie che denunciavano gli abusi degli schiavisti sui neri. Adesso la testimonianza è portata in modo molteplice e dal basso, grazie alla forza combinata di smartphone e social. Storicamente questi strumenti sono serviti per fare avanzare i diritti civili delle minoranze (come quello al voto).
  • La polizia, per riportare ordine, con ulteriore controllo. Ultimamente vengono impiegati gli strumenti digitali, tra cui il riconoscimento biometrico. È un paradosso: l’individualità di ciascuno viene utilizzata per negare la stessa unicità. L’intento è quello di omologare ogni soggetto, facendolo rientrare nell’ordine stabilito. Sono stati proposti laser per misurare, a distanza, il battito cardiaco, occhiali con cui riconoscere i sospetti, algoritmi per identificare l’andatura.
  • Tuttavia, ogni volta che la vita viene ingabbiata in una misura, in una scheda, in una definizione, trova soluzioni per straripare, per sabotare quelle gabbie.

La storia vinta dai vincitori o dai social?

Ultimamente si fa spesso riferimento a un termine che nel 2006 Tullio De Mauro inserì tra i neologismi: la subveglianza. Questo concetto comparve quando la pervasività dei dispositivi mobili diede modo a tutti di potersi tutelare, riprendendo e diffondendo eventuali ingiustizie subite. Ogni parola e il fluire stesso della vita sono fissabili per sempre, tanto che il motto è ormai diventato “verba et scripta manent”. Audio e video sono un codice di bit copiabile all’infinito, di cui ogni clone è assolutamente indistinguibile dall’originale.

Un tempo la storia veniva scritta dai vincitori. Quando una fazione si imponeva sull’altra e saliva al potere, aveva il controllo totale sugli scribi, sugli archivi e sulla censura. I cittadini non avevano modo di testimoniare quello che accadeva loro. È per questo che ci resta solo la versione “ufficiale” dei fatti. La stessa attribuzione di “ufficialità” fa parte della propaganda del potere, volta a delegittimare qualunque opinione contraria, bollandola come apocrifa. In effetti come poteva l’uomo comune lasciare una testimonianza scritta? Ancora dopo la Seconda Guerra Mondiale, con le prime televisioni e il servizio offerto dal Maestro Manzi, in Italia il tasso di analfabetismo era impressionante.

Fu a partire dalla Modernità, comunque, che gli storici cominciarono a beneficiare di un genere di fonti storiche prima irreperibile. Dal 1500 ci fu un’esplosione di documenti. Furono prodotti diari, lettere, autobiografie, romanzi. Tali scritti vennero conservati nelle biblioteche familiari. Grazie a queste fonti, oggi, possiamo conoscere un tipo di storia differente. I protagonisti sono personaggi che normalmente sarebbero rimasti eclissati, a meno che non fossero stati coinvolti in processi di qualche tipo. La storia non è più solo storia di dati, di battaglie, di re e regine, ma è storia di persone, di classi subalterne e di punti di vista alternativi.

Oggi, e in misura ben maggiore, chiunque ha modo di dare prova della sua realtà. Possiamo lasciare testimonianze che non richiedono, come prerequisiti, speciali abilità linguistiche. Il codice iconico non è così tanto suscettibile delle barriere culturali. Ciò significa che stiamo assistendo a una democratizzazione della testimonianza.

Il problema delle fonti storiche

Come spesso ho scritto, stiamo lasciando così tante fonti che il lavoro da storico verrà probabilmente eseguito da algoritmi, come branca della Big Data Science. Tuttavia, il fluire della quotidianità rende ogni tentativo di descrizione una semplificazione dei fatti. Non è possibile raccontare ogni aspetto della vita e quindi della storia. Inoltre, quando si racconta, inevitabilmente si sceglie, come in un Aut Aut kierkegaardiano, di perdere l’esistenza: o si vive o si narra, diceva Jean Paul Sartre. Oggi, però, siccome selfie, testi, video, audio sono copiabili e viralizzabili all’infinito, i documenti stanno in qualche modo sorpassando il numero di stati dell’esistenza originaria.

Il recente caso di George Floyd è un esempio di come i social siano una svolta. Normalmente i soprusi delle autorità restano nascosti o al massimo si concludono con un nulla di fatto: il giudice decide che l’agente si è sentito in pericolo e ha reagito per legittima difesa, poco importa se il ragazzo di colore era disarmato e con le mani vuote, puntate al cielo. La notte (e il sole in faccia) è sempre una buona scusa per una risposta da buon cittadino americano.

Siamo sicuri che i video e i social network non siano il manico dalla parte del coltello? Perché la subveglianza (cioè la sorveglianza condotta dal basso) sia efficace deve essere sempre “sorveglianza”. La base non ha mai cambiato alcunché.

La Rivoluzione francese fu possibile solo dal momento in cui il Terzo Stato si ritrovò alla pari dei nobili e del clero. Finché c’era un gap rilevante nella gerarchia, nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio la giustizia della divisione sociale per nascita. Quando la borghesia poté avere un potere contrattuale, e quindi una vicinanza sostanziale con l’aristocrazia, poté confrontare la sua condizione con quella degli altri ceti.

I “quantificatori di esistenza”

Allo stesso modo la comunità nera oggi può richiedere diritti solo se ha raggiunto un livello molto prossimo a quello degli altri gruppi. Può mettere in dubbio l’esistenza della razza solo quando c’è già la percezione che essa non sia vera. In effetti, paradossalmente, è possibile inserire un quantificatore di Esistenza solo dopo che è stata dimostrata la verità di quella cosa. Un oggetto esiste o meno solo dopo averne avuto esperienza e quindi in seguito alla prova della sua verità o falsità.

Pertanto, il video trasmesso in streaming dell’uccisione di George Floyd ha avuto così tanta risonanza perché il “basso” che ha giudicato l’episodio si trovava in una condizione di potere rispetto all’autorità. Oltretutto, trasformare quel video in un manifesto di pubblica indignazione dipende dalla sua distribuzione presso altre realtà sociali. Fosse rimasto nei confini americani, probabilmente, sarebbe stato manipolato, minimizzando la colpevolezza degli agenti.

In effetti l’uso distribuito di camere di videosorveglianza negli Stati Uniti non è valso a ridurre il tasso di violenza esercitato dai poliziotti. La svolta del caso-Floyd dipende dal fatto che da un lato la società in America comincia a cambiare, e, dall’altro, dal fatto che il video sia stato sottoposto a schemi di interpretazione alternativi. Le altre Nazioni non hanno motivi di giustificare, mascherando, quella brutalità, mentre hanno tutto l’interesse per indirizzare le loro accuse a un continente con cui sono in competizione.

Video: un’arma a doppio taglio

La possibilità di avere a portata di mano un mezzo così rapido e facile da usare, con cui documentare e diffondere idee e fatti, è un’arma dei cittadini, ma anche delle autorità.

Per esempio esiste l’uso dell’Intelligenza Artificiale per l’identificazione dei soggetti. Fortunatamente, grazie a numerose ricerche condotte intorno all’inaccuratezza del facial recognition, e soprattutto grazie al ruolo del movimento #blacklivesmatter, le grandi aziende, come IBM e Microsoft, hanno interrotto la produzione di tali sistemi identificativi. Riconoscere un volto è una faccenda complicata: le immagini devono essere frontali e senza elementi che potrebbero inficiare l’identificazione, come capi di abbigliamento, barbe, occhiali scuri… Come gli umani anche il Machine Learning va incontro alla prosopagnosia! Inoltre, tali strumenti, in mano alla pubblica sicurezza, perpetuerebbero la solita ingiustizia nei confronti delle minoranze. È provato che il riconoscimento facciale commetta più errori proprio con le persone di colore.

Anche i video sono uno strumento utilizzabile dal potere per esercitare controllo e minaccia. Soprattutto in questo momento di proteste sono stati impiegati dai servizi dell’ordine per identificare e arrestare i ribelli. Per tutelare l’identità dei dimostranti, sono state prodotte App, come Anonymous Camera, con l’obiettivo di nascondere immediatamente i visi delle persone. Tuttavia ci sono alcune problematiche. Per prima cosa, non tutti utilizzerebbero quell’App per scattare foto durante una protesta. Se un soggetto si preoccupa di tutelare la privacy dei compagni, nella possibilità che gli sia requisito il telefono o che le immagini possano circolare nel web, non è certo che gli altri facciano lo stesso. Inoltre è uno strumento ancora perfettibile. Per i volti posizionati sia in primo piano sia sullo sfondo, l’App fatica a riconoscere le figure umane, finendo per non applicare loro l’effetto blur.

Social, il nodo censura

Bisogna non tralasciare il fatto che i Social Network sono aziende private. Ogni algoritmo funziona in modo indipendente. Per ogni società vale un regolamento diverso e spesso è poco chiaro. Zoom ha recentemente censurato diversi meeting online, organizzati con lo scopo di ricordare Tienanmen. Il motivo? Siccome in Cina è proibito ricordare quegli eventi, l’azienda americana ha deciso di far valere tali censure sugli account cinesi. Anche se Zoom è ubicata fuori dal contesto mandarino, si è prestata a fare da complice al governo cinese.

In Cina i cittadini non sono liberi di esprimersi e di navigare sul web in autonomia. Per controllare ogni aspetto della vita dei singoli, la politica da tempo usa l’intelligenza artificiale. La domanda che sorge spontanea è, dunque, quali regole implementi TikTok, se è una piattaforma nata in Cina e se, soprattutto, è utilizzabile dalla popolazione. I sessanta secondi permettono la realizzazione di video di “distrazione di massa”, ma lasciano anche esprimere idee? In effetti, quando furono condivise immagini che dimostravano atti di violenza subita dai dimostranti durante gli avvenimenti di Hong Kong, TikTok si impegnò per eliminare ogni prova.

La storiografia ci insegna che l’assenza di fonti, a volte, comunica più dei documenti stessi. Durante la Rivoluzione francese i contadini bruciarono gli archivi dei nobili dentro i quali era conservata la prova della loro servitù. Per paura che il feudalesimo fosse riproposto si tutelarono preventivamente, eliminando ogni dimostrazione della gerarchia. L’assenza che ci è pervenuta ci descrive un contesto e un’emotività che forse solo i poeti avrebbero potuto trasferirci. La mancanza di certi contenuti su TikTok cosa documenta?

Le mille facce della testimonianza

I video devono rispondere alle regole, soprattutto a quelle delle piattaforme su cui sono caricati. Oltre a ciò bisogna chiederci se possiamo fidarci di quello che vediamo. La testimonianza è una questione filosofica antica. La maggior parte delle nostre conoscenze si basa sul “sentito dire”. Quasi mai la conoscenza viene acquisita direttamente.

Quando viene valutata la verità di una testimonianza, si compie un doppio sforzo. Da un lato bisogna comprendere l’atteggiamento del parlante nei confronti di quanto ci riporta: sa quello che afferma o ne è semplicemente persuaso? Ha qualche interessa a mentire? Il fatto che un testimone sia in buona fede e creda davvero in quello che asserisce è una questione complessa. Esiste un’ampia letteratura psicologica intorno agli errori dei testimoni oculari.

In secondo luogo bisogna valutare la vero-funzionalità dell’asserzione. Questo passaggio si può effettuare solo valutando il mondo, se i fatti direttamente osservabili verificano o meno la testimonianza. Siccome quasi mai si dispone di risorse e di tempo sufficienti per valutare empiricamente la verità di una proposizione, preferiamo semplificare il processo, fidandoci del testimone. È razionale comportarsi in questo modo? Se un parlante premettesse sempre il suo grado di conoscenza riguardo a quel che riporta sarebbe più facile? Se A dicesse che è blandamente convinto di p, indurrebbe il destinatario a condurre indagini più dettagliate intorno a quanto gli è stato riportato. Tuttavia, anche in questo caso non è facile mettersi al riparo da conclusioni fallaci.

Ciò che ci porta ad accogliere le testimonianze, è lo stesso meccanismo che spesso si nasconde dietro ai nostri giudizi. Non abbiamo modo di controllare tutti i dati, di disporre di tutte le variabili, inoltre la nostra cognizione ha una potenza di calcolo limitata. Tuttavia, per pragmaticità, per non restare fermi nel dubbio metodico, siamo obbligati comunque a emettere risposte, anche se si tratta di output parziali, basati su premesse monche. È per questo che i giudizi e le conoscenze di cui siamo testimoni diretti sono quasi sempre lontani dalla certezza. Non solo, spesso concorrono fattori culturali, che viziano inevitabilmente l’osservazione. Come mai, allora, la conoscenza continua a dipendere dalle opinioni? Come mai si scambia la credenza in p per una conoscenza di p? Come mai si continuano a tramandare idola fori?

Il valore conoscitivo del video

Un video distribuito sui Social potrebbe trasformarci da testimoni indiretti a osservatori in prima persona? Un video, in realtà, è sempre una mediazione, non è conoscenza diretta. Inoltre, l’idea che vedere un filmato online possa valere da giustificazione del sapere appartiene a un preciso pregiudizio culturale. Vedere un oggetto non vuol dire affatto conoscerlo. Questo errore risale ai Greci, quando si verificò una conversione noetica del sapere, per cui il senso della vista diventò sufficiente a provare i fatti.

In realtà le riprese possono essere tendenziose come una qualunque testimonianza. Se un episodio non viene mostrato per intero, le posizioni di torto e ragione dei protagonisti possono facilmente subire un’inversione. Inoltre il codice iconico non è immune ai problemi ermeneutici di cui si è accennato poco sopra. Un’immagine va facilmente incontro a un’esplosione di interpretazioni antinomiche.

A tal proposito, recentemente è emerso l’inganno del noto attivista Marc Ching, che da eroe si è rivelato essere il finanziatore numero uno delle torture inflitte a quei cani che fingeva di difendere. Egli si servì proprio della tendenza a credere con maggiore facilità ai video. Quei filmati che Ching distribuiva per far conoscere la causa animalista e che ritraevano macellai cinesi intenti a torturare gli animali, erano video sovvenzionati dallo stesso attivista, di modo che la pietas delle persone e la tendenza a scambiare il video per una conoscenza diretta aumentassero il cash nelle sue tasche.

Il problema dei deep-fake è un ulteriore indizio per comprendere quanto sia complesso valutare la testimonianza. L’intelligenza artificiale, in modo molto pericoloso e inquietante, riesce a generare video e immagini, collocando persone reali in situazioni che non sono mai esistite. Facebook sta lavorando a un algoritmo per riconoscere quando un video è autentico e quando è una finzione creata artificialmente. Per adesso i tentativi sono ancora lontani dall’essere utilizzabili.

È chiaro che sebbene internet e i device mobili possano essere una tutela personale, in mancanza di norme chiare restano un rischio eccessivo. Un occhio che crede di spiare dalla serratura, può invece essere scansionato dall’interno e, in ogni caso, è sempre da dentro la stanza che viene deciso quando e per chi la porta possa essere aperta. Quando si guarda l’abisso, l’abisso ti sta guardando.

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