L'analisi

Digitalizzazione, a che punto è l’Italia: lo scenario alla luce del coronavirus

Il Covid-19 ha accelerato il processo di trasformazione digitale intrapreso dall’Italia, ma per cogliere del tutto la possibilità offerta da questa crisi per fare il salto servono azioni concrete: ecco le priorità da affrontare

Pubblicato il 18 Nov 2020

Nicola Testa

Presidente U.NA.P.P.A. Unione Nazionale Professionisti Pratiche Amministrative

italia digitale

Fare il punto sull’innovazione del Paese oggi significa in primo luogo fare i conti una volta per tutte, sul piano produttivo, organizzativo, ma prima ancora culturale, con la rivoluzione digitale. L’occasione per un’improvvisa accelerazione è stata senza dubbio fornita dall’emergenza Covid-19. Un evento tragico, anche sul piano economico e sociale, che tuttavia ha rappresentato per il nostro Paese un significativo cambio di passo, costringendolo ad una marcia a tappe forzate, a partire dallo smart working ma non solo, in direzione di una più decisa digitalizzazione di attività e processi. L’Italia in questi mesi ha reagito alla gravità del momento gettando il cuore oltre l’ostacolo. E ciò è avvenuto anche rispetto all’uso delle nuove tecnologie. I presupposti per cogliere un’opportunità storica ed irripetibile per far compiere alla società italiana un balzo in avanti sulla strada della modernizzazione ci sono tutti. Il punto, semmai, riguarda l’insieme di azioni concrete e immediate che devono essere poste in essere per questa trasformazione fondamentale del sistema Italia.

I numeri della digitalizzazione in Italia

Anzitutto, occorre essere consapevoli delle condizioni di partenza da cui prendiamo le mosse. Dati dell’Osservatorio Professionisti e Digital Innovation 2b2 del Politecnico di Milano mettono chiaramente in luce come il 34% delle imprese italiane presenti già oggi un alto livello di digitalizzazione per tecnologie e capitale umano, che nella maggior parte dei casi si contraddistingue anche per un’elevata sostenibilità ambientale della performance di impresa. Ad esse si deve poi aggiungere l’11% delle imprese che hanno comunque avviato la trasformazione digitalizzazione. Anche se il 55% delle aziende conserva un approccio prevalentemente reattivo, dimostrandosi tuttora incapaci di intendere il digitale come un fattore strategico per il proprio sviluppo. Appare quindi chiaro come il passaggio al digitale implichi soprattutto un cambio di atteggiamento culturale, che il sistema imprenditoriale del nostro paese, forse anche per le piccole dimensioni delle sue aziende, fatica ancora a compiere.

Sempre stando ai dati del Politecnico di Milano, le cose vanno meglio nel mondo delle professioni, dove gli studi professionali che fra il 2018 e il 2019 hanno investito più di 10 mila euro in tecnologie e attività digitali sono passati dal 5 al 25%. Peraltro, da un confronto comparato con due altri importanti paesi dell’Europa meridionale, cioè la Francia e la Spagna, emerge con chiarezza come il nostro paese, nonostante le dimensioni relativamente più piccole dei suoi studi professionali, presenti indicatori migliori, soprattutto rispetto alla gestione telematica di documenti e procedure. E ciò dovrebbe indurre un maggiore ottimismo rispetto alla possibilità che un più diffuso e capillare ingresso delle nuove tecnologie abbia modo di favorire un netto miglioramento delle prospettive di sviluppo del sistema Italia.

I fronti critici del Paese

Il digital divide che ancora oggi scontiamo rispetto a zone molto estese del nostro territorio nazionale dove non arriva né la banda larga né la fibra ottica, congiuntamente alla scarsa diffusione di competenze digitali di base e avanzate, che siamo tuttora costretti a scontare soprattutto nelle imprese poco propense a investire nelle nuove tecnologie, costituiscono i principali ostacoli sulla strada della digitalizzazione. Stando agli indicatori del Digital Economy and Society Index 2020 (DESI) relativi ai 28 Paesi membri dell’Unione Europea, i punti di debolezza dell’Italia si ravvisano proprio sul fronte del capitale umano, ossia la disponibilità di competenze digitali, e dell’integrazione delle tecnologie digitali nei processi organizzativi e produttivi. Ed è proprio questo il motivo per cui il nostro paese fatica a staccarsi dalla coda della classifica dei paesi europei, continuando ad oscillare fra la quartultima e terzultima posizione dell’Europa dei ventotto stati membri. L’Italia negli ultimi anni ha fatto progressi molto importanti sotto il profilo della connettività: il prossimo ingresso del 5G ha dato un impulso senza precedenti, che si spera possa essere adeguatamente sfruttato anche per raggiungere le zone del paese tuttora prive di una connessione affidabile e veloce.

Progressi che poi sono destinati a scontrarsi con un uso dei servizi internet prevalentemente legato ad attività ludiche (fruizione di videoclip, musica, news e videogiochi) e viceversa poco orientato verso attività più evolute quali l’e-banking o il commercio on line. Inoltre, al di là del diffuso utilizzo di smartphone e social media, il ricorso a clouding, big data, long term forecasting, internet of thing, realtà simulata, prototipazioni, simulazioni ed altre attività in grado di sfruttare a pieno le potenzialità delle nuove tecnologie resta molto limitato. Si evidenzia così un paradosso sempre più grave fra potenzialità offerte dai sistemi di connettività, ovvero disponibilità di infrastrutture di rete, e insufficienti competenze informatiche, di base quanto avanzate, che sono il presupposto necessario affinché la digitalizzazione abbia gambe robuste, nelle imprese, nel mondo delle professioni, oltre che fra i cittadini, su cui poter camminare velocemente.

Il ruolo della PA

La Pubblica amministrazione può svolgere un ruolo decisivo. Già la Strategia Italia 2025 messa a punto dal Ministero per l’Innovazione tecnologica indica nella Pubblica amministrazione il principale e indispensabile motore del cambiamento. E anche i programmi di incentivazione messi a punto dal Mise, quali Impresa 4.0, Transizione 4.0 e ora Impresa 4.0Plus, attribuiscono alle procedure amministrative gestite dalla burocrazia pubblica un peso decisivo per accelerare la trasformazione del sistema produttivo del paese. Infine, il Piano triennale per l’Informatica nella Pubblica amministrazione arriva addirittura a prevedere l’introduzione dei Responsabili per la transizione digitale.

Vi è da dire che nei rapporti con la Pubblica amministrazione un decisivo passo in avanti è stato fatto con lo SPID, che solo fra il 2019 e il 2020 è passato da 3,4 a 10 milioni di utenze spinta data dal Decreto Semplificazioni che lo introduce come obbligo per accedere a molte p.a. e svolgere parecchi servizi: bonus vacanze, scuola, Sanità, Inps. Buono è inoltre il livello dei servizi pubblici alle imprese, a partire dal Registro, che nel contesto europeo ci vede davanti a paesi nel complesso digitalmente più evoluti di noi, quali la Germania e il Belgio. E le novità previste dalla Legge semplificazioni (L. 120/2020) in tema di aggiornamento delle registrazioni e ricorso al domicilio digitale, come ci ricorda UnionCamere, dovrebbero contribuire a rendere questo strumento ancora più affidabile. Senza dimenticare che i dati di InfoCamere segnalano che ben 800 mila imprese in questi mesi hanno attivato il cassetto digitale.

Per quel che in particolare riguarda la Pubblica amministrazione, importanti passi in avanti sul terreno degli open data sono stati compiuti nel corso degli ultimi anni, a partire dalla Riforma Madia. Anche se rispetto all’utilizzo dei big data e di tecniche evolute quali il machine learning per fare proiezioni, simulazioni e previsioni su grandi aggregati di informazioni c’è ancora molta strada da fare. Ma in questo momento il terreno di maggiore impegno dell’Ufficio per la semplificazione del Dipartimento per la Funzione pubblica riguarda la prossima attività di ricognizione degli adempimenti.

La collaborazione con le associazioni

Un monitoraggio che potrà risultare efficace solo se vedrà una stretta collaborazione degli apparati amministrativi del governo centrale con – da un lato – Regioni ed Enti locali, cioè i livelli responsabili di gran parte dei procedimenti di autorizzazione, e – dall’altro – le associazioni di rappresentanza (imprenditoriali, professionali e del mondo del lavoro), che sono in uno stretto rapporto quotidiano con i diretti interessati di quegli stessi procedimenti. Una collaborazione quella che deve attuarsi con le associazioni, decisiva ai fini di orientare la semplificazione verso le aspettative e i bisogni di cittadini e imprese, creando al tempo stesso le condizioni indispensabili per una standardizzazione delle procedure amministrative.

Poiché in un Paese di venti regioni, circa ottomila comuni, un centinaio di province e una decina di città metropolitane il fatto che le stesse procedure di autorizzazione vengano denominate in maniera diversa a seconda della realtà amministrativa presa a riferimento costituisce senza dubbio un problema, oltre a rappresentare un’evidente distorsione a svantaggio degli utenti. Un fattivo contributo da parte delle associazioni di rappresentanza del mondo dell’impresa e delle professioni dovrebbe inoltre favorire la ricerca, l’individuazione e l’eliminazione di obsolescenze, ridondanze e sovrapposizioni tuttora di intralcio alla realizzazione di un regime autorizzatorio più rapido e concretamente in grado di rispondere all’interesse pubblico. Aspetti dei quali è consapevole anche il Dipartimento per la Funzione pubblica e che si auspica costituiranno il fuoco di attenzione dell’attività di ricognizione.

Il tema della collaborazione istituzionale fra diversi livelli di governo e rappresentanze associative può risultare cruciale se si vuole affrontare la modernizzazione del paese con una logica vincente. La possibilità che l’Italia superi la crisi innescata dalla pandemia entrando in una nuova fase economica, nella quale l’innovazione digitale e la semplificazione amministrativa, congiuntamente al rilancio delle attività produttive secondo un nuovo modello di sviluppo, in grado di fare i conti con la globalizzazione, che costruirà lo scenario dominante anche nell’era post Covid-19, senza perdere di vista la coesione sociale, dipenderà in larga parte dalla capacità di fare squadra. Ormai non sono più soltanto le parti sociali a sottolineare questa esigenza, a partire dalla preoccupazione per la crescente disintermediazione dei processi di policy making, ulteriormente accentuata dal distanziamento sociale al quale siamo stati costretti durante l’emergenza sanitaria. È questa, in buona sintesi, la posizione oggi espressa per esempio dalla CISL e dalla CNA. Ma è anche il governo a riconoscere che per contrastare la recessione economica alla quale andremo inevitabilmente incontro una volta usciti dalla pandemia è necessario ripristinare un clima di reale collaborazione fra decisore pubblico e categorie sociali organizzate.

I dati dell’Osservatorio Professionisti e Digital Innovation 2b2 del Politecnico di Milano mostrano un mondo delle professioni in continua evoluzione, ma se si guarda l’elenco degli innovation manager pubblicato nei mesi scorsi dal MISE si deve riconoscere come siano ancora poco diffuse le figure caratterizzate da competenze peculiarmente digitali: la maggior parte degli iscritti al registro, infatti, dispone soprattutto di skills organizzativi e manageriali, che di per sé hanno ben poco a che fare con le tecnologie di nuova generazione ma possono essere comunque utili perché l’innovazione passa da un insieme di fattori non solo puramente tecnici. Del resto, stiamo parlando di competenze di recente formazione, che in molte realtà aziendali si stanno affacciando solo ora e che richiedono ancora del tempo per un’efficace implementazione. La transizione al digitale non potrà che avvenire in maniera graduale, perciò non possiamo pensare che la frontiera dell’innovazione oggi riguardi soltanto i manager che si occupano del trasferimento di tecnologie avanzate in azienda, dalla produzione al marketing passando per i processi organizzativi.

Il caso degli esperti di pratiche amministrative

Se parliamo di innovare la pubblica amministrazione essa riguarda inevitabilmente anche gli esperti di pratiche telematiche che gestiscono le procedure di autorizzazione e certificazione amministrativa delle imprese (e dei cittadini) in rapporto alla Pubblica amministrazione, il cui ruolo di supporto è fondamentale per risolvere quel problema di alfabetizzazione digitale che ancora ci affligge. La finestra di opportunità per una rapida ed efficace trasformazione digitale che si è aperta davanti a noi in questo ultimo anno deve essere colta senza indugi. Possiamo fare meglio di quanto finora si sia riuscito in positivo a fare. Dobbiamo però creare le condizioni più adeguate per un migliore allineamento fra domanda e offerta di servizi digitali. E per sanare questo gap, prima di tutto culturale e poi tecnologico, il contributo dei professionisti delle pratiche amministrative può risultare decisivo. Da un’indagine condotta lo scorso anno da Unappa su un campione rappresentativo di titolari di agenzie di pratiche amministrative risultava chiaramente come questo mondo sia pronto per affrontare la sfida, dal punto di vista delle credenziali educative e delle competenze, così come della consapevolezza dei processi in atto.

Il 97% dei professionisti delle pratiche amministrative dispone di un’istruzione superiore, ben un terzo di loro ha una laurea o un master, il 30% ha un’età fra i 35 e 44 anni, mentre il 40% si colloca fra i 45 e 54 anni, trovandosi perciò nel pieno della loro maturazione professionale. Inoltre, ben il 60% ritiene che le tecnologie digitali costituiscano un importante risorsa per il proprio lavoro, mostrando un orientamento culturale pienamente favorevole ai cambiamenti in corso, tra l’altro dimostrato anche dall’accompagnamento di questo processo fin dai suoi albori con l’avvio di firma digitale e del Registro Imprese telematico fin dal 2000 per arrivare a oggi dove conservazione, pec evolute, processi integrati di gestione, ecc., sono la normalità quotidiana.

Il mondo delle nuove professioni ovvero i professionisti delle pratiche amministrative ma non solo, anche i manager dell’innovazione e tanti altri nuovi profili di competenze, hanno la stessa dignità degli ordini professionali tradizionali e vanno alla pari coinvolti nei processi di cambiamento, anzi come associazione auspichiamo una piena collaborazione che è fattiva nelle questioni pratiche, ma vorremmo diventasse strutturale per la proposta al Legislatore su questi temi. L’abbiamo definita una “santa alleanza” in cui tutti gli attori devono poter fare la loro parte, professioni, impresa, pubblico uniti in un obiettivo comune, semplificare. Una dignità quella di noi professionisti Unappa, che si avvale di un know-how sempre più articolato e al passo con i tempi, che già oggi è concretamente riconosciuto dal mercato.

Il tempo per un riconoscimento giuridico della procura telematica è quindi ormai maturo. I suoi presupposti normativi si ritrovano già nel sistema di relazioni digitali fra Pubblica amministrazione, cittadini e imprese sancito dalla Legge semplificazioni (Legge n. 120/2020), attraverso strumenti quali lo SPID, la CIE, il domicilio digitale, la AppIO, data center e banche dati della PA. Peraltro, le attività di archiviazione e tutela delle pratiche in formato digitale, di cui si fa abitualmente carico il professionista delle pratiche amministrative, configurano lo svolgimento di una funzione di garanzia che è nello stato delle cose. Ciò che ancora manca è l’istituzione giuridica della figura del procuratore telematico come soggetto autorizzato a certificare la correttezza delle comunicazioni alla Pubblica amministrazione di cittadini e imprese dal punto di vista della loro conformità formale. Un piccolo passo sul fronte di quella semplificazione amministrativa che deve sempre più trovare corrispondenza in forme di regolazione ispirate a principi generali di self-government.

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