L'analisi

Recovery Fund, a che punto è l’Italia: i progetti e fronti critici

A fine aprile scade il termine previsto per gli Stati membri UE per presentare i loro piani di rilancio nell’ambito dei finanziamenti del Next Generation EU: in Italia le bozze programmatiche puntano sulla trasformazione digitale di PA e imprese, ma sembra mancare concretezza

Pubblicato il 13 Gen 2021

Nicola Testa

Presidente U.NA.P.P.A. Unione Nazionale Professionisti Pratiche Amministrative

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Il piano di finanziamento europeo Next Generation, che comprende il Recovery Fund, mette sul piatto cifre senza precedenti per l’Italia e, di conseguenza, rappresenta un’occasione di investimento senza eguali. Tuttavia il tempo che ci separa dalla scadenza di fine aprile, entro la quale gli stati membri dovranno presentare i rispettivi piani di rilancio alla Commissione europea, è molto breve.

Tant’è che la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha recentemente manifestato la preoccupazione delle istituzioni europee circa il fatto che l’Italia non riesca a presentare i piani di sviluppo nei tempi previsti. E il timore è che ancora una volta il Paese si presenti all’appuntamento con il proprio futuro in ritardo. Intanto, martedì è stata licenziata la terza versione della bozza del Piano nazionale che apposterebbe 46,18 miliardi di euro per investimenti strategici.

Vediamo quanto è stato fatto fino adesso, i fronti critici e gli scenari che si configurano.

Perché il Recovery Fund è un’occasione imperdibile

Storicamente, un simile programma di rinascita fu il cosiddetto Piano Marshall nel 1947: aiuti per un miliardo e duecento milioni di dollari di allora, distribuiti in quattro anni. Un valore che, paragonato ai giorni nostri, secondo stime approssimative, equivarrebbe a 89 miliardi di euro attuali, a cosiddetto fondo perduto. E se questa era la straordinaria entità del “Piano Marshall”, quella che verrà nei prossimi sei anni (2021-2026), dall’impegno dell’Unione Europea verso il nostro Paese, sarà un’operazione da circa 209 miliardi di euro, dei quali poco meno di 65 miliardi a fondo perduto. Ciò soltanto per dire dell’imponente valenza degli investimenti collegati al Piano “Next Generation EU”, del quale fa parte – insieme ad altre misure – il cosiddetto “Recovery Fund”.

[Per un sintetico riepilogo della stima dei fondi e della loro provenienza, per quel che riguarda l’Italia, si veda la Tabella allegata n.1. Fonte: Governo italiano]

Le scadenze definite dall’Unione Europea sono stringenti: i governi nazionali dovrebbero inviare alla Commissione europea i Piani entro fine aprile 2021. Nel caso italiano, ciò comporta che la presentazione delle Leggi delega inerenti i progetti di investimento debba avvenire entro quella data. Il governo Conte ha anticipato che l’obiettivo è quello di inviarlo prima di quella scadenza, all’inizio del 2021, ovvero entro la fine di febbraio. Tuttavia, fino a questo momento, il Piano non è ancora stato definito nei suoi dettagli. Al contrario, nella maggioranza giallo-rossa il Recovery Fund è ancora oggetto di forti discussioni.

E finora il governo ha divulgato, in via riservata e ufficiosa, tre documenti. Occorre peraltro ribadire che fino a quando il Consiglio dei ministri non licenzierà la bozza di proposta da sottoporre al vaglio del Parlamento si tratterà soltanto di documenti provvisori, privi di una veste ufficiale. Il primo, le Linee Guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di 38 pagine sintetizzate in 32 slide, presentato alle Camere dall’esecutivo, risale al 15 settembre. Il secondo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza#Nex Generation Italia, di 125 pagine, è stato portato in Consiglio dei ministri dal Presidente del Consiglio il 6 dicembre, ma non è mai stato approvato dall’esecutivo. Il terzo, che in buona sostanza è la seconda versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza#Nex Generation Italia, nel frattempo divenuta di 172 pagine, porta la data del 12 gennaio 2021, ed è stato approvato dal Consiglio dei ministri durante la seduta di ieri sera.

I primi due documenti hanno un carattere molto generale. In particolare, il primo documento indicava gli ambiti di azione fondamentali del piano (le sei missioni), i cluster di intervento e le correlate politiche di supporto. Il secondo documento determinava l’ammontare complessivo degli stanziamenti, distinguendo per ciascuna delle 52 linee progettuali di cui si compongono le sei missioni il totale degli stanziamenti previsti, la parte di spesa già considerata nei saldi di bilancio e le conseguenti risorse aggiuntive. Tuttavia in quei documenti le linee progettuali erano ancora poco più che abbozzate, non facendosi nella maggior parte dei casi riferimento a precise politiche pubbliche. Il terzo documento, quello licenziato il 12 gennaio dal Ministero dell’Economia e Finanza, è senza dubbio il più solido, poiché meglio delineati sono gli assi strategici del Programma (digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale), oltre che le priorità trasversali (parità di genere, giovani e riequilibrio Nord/Sud), meglio precisata è la dislocazione delle risorse sia nelle sei missioni da perseguire sia nelle componenti di ciascuna di esse, meglio specificata è la parte analitica sulle diverse linee progettuali, per quel che concerne sia la loro scansione temporale sia la valutazione del loro impatto, quanto meno dal punto di vista economico.

Gli obiettivi per la trasformazione digitale dell’Italia

Per quel che, in particolare, riguarda l’impegno di spesa nel campo della trasformazione digitale del Paese, indicata fra i terreni di intervento più importanti, in conformità agli obiettivi indicati dall’Unione Europea insieme alla transizione verde, nel primo documento si parla di almeno il 20% della spesa prevista nello specifico dal Recovery Fund. Nel secondo documento, l’impegno di spesa viene determinato in poco più di 48 miliardi, corrispondenti a poco meno di un quarto dei 196 miliardi messi a obiettivo, una percentuale superiore alla soglia stabilita in sede europea. Nell’ultimo documento la cifra appostata è di 46,18 miliardi, alla quale vanno aggiunti 1,60 miliardi di fondi SIE/PON e 11,17 miliardi già previsti dalla programmazione di bilancio 2021/26 per arrivare a un totale complessivo di 58,95 miliardi di investimenti.

In particolare, il capitolo Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA prevede un investimento di 11,45 miliardi, rispetto ai quali la fanno da padrone la modernizzazione della Pubblica amministrazione (9,45 mld), mentre alla voce Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo figurano 26,73 miliardi, fra i quali spiccano Transizione 4.0 (18,98 mld), oltre alla diffusione di banda e 5G (4,20 mld).

[Sul valore economico dei progetti previsti dalla bozza del Recovery Plan diffusa da Palazzo Chigi per l’ambito Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, si veda la Tabella allegata n. 2. Fonte: Presidenza del Consiglio dei Ministri – Governo italiano]

Venendo, al merito, sulla necessità che l’Italia investa nella trasformazione digitale in modo da allineare il Paese alle prestazioni degli altri stati membri dell’Unione Europea, tema sul quale abbiamo già avuto modo di intervenire in diverse occasioni, siamo tutti d’accordo. L’Unione Europea si è già più volte espressa in tal senso e le priorità individuate dal Governo italiano non fanno altro che confermare le indicazioni provenienti da Bruxelles. Ciò detto, fino a questo momento non è ancora dato conoscere quali siano le strategie concrete di implementazione, le azioni specifiche, che si collegano alle aree di intervento definite per questi finanziamenti.

I cluster tematici

In particolare, i cluster tematici indicati già nelle Linee guida di settembre riguardano:

  • l’innovazione e la digitalizzazione della Pubblica amministrazione;
  • la reingegnerizzazione dei procedimenti amministrativi attraverso la loro digitalizzazione;
  • lo sviluppo di infrastrutture e servizi digitali (i.e. clouding e data center);
  • il completamento della fibra ottica e lo sviluppo successivo del 5G;
  • la digitalizzazione delle filiere strategiche per il paese, a cominciare da quelle di eccellenza;
  • la neutralizzazione del digital divide;
  • la transizione x.0 del sistema imprese (dal punto di vista dei provvedimenti del governo siamo già all’industria 4.0 Plus);
  • l’investimento in Ricerca e Sviluppo nella prospettiva del trasferimento tecnologico.

Per quel che concerne la Pubblica amministrazione, inoltre, si sostiene che la trasformazione digitale dovrà avvenire nell’ambito di strategie integrate finalizzate all’armonizzazione dei sistemi delle diverse amministrazioni, rispetto alle quali dovranno essere favorite l’innovazione organizzativa, la semplificazione amministrativa e l’introduzione di forme innovative di comunicazione al cittadino.

La reingegnerizzazione dei procedimenti amministrativi attraverso la loro digitalizzazione e l’armonizzazione dei sistemi delle diverse amministrazioni sono entrambi temi cari alla nostra organizzazione, visto che ci occupiamo proprio di adempimenti e autorizzazioni amministrative. Su questo fronte è peraltro già intervenuto il Decreto legge Semplificazioni del luglio scorso, richiamato anche nei due documenti del governo, che all’articolo 15 prescrive una “ricognizione di tutti i procedimenti amministrativi”, che servirà tra l’altro a mettere in luce come oggi tali procedimenti siano in moltissimi casi già digitali. È infatti dal 2000 che inviamo pratiche telematiche e firmate digitalmente con firme qualificate, sebbene si tratti semplicemente dei vecchi moduli cartacei trasformati in digitali, e non ancora di procedure ripensate, modificate e semplificate alla luce del nuovo ricorso a portali digitali. Ma su questo fronte servirebbe una revisione delle pratiche che ancora non si è vista.

Così come non possiamo non segnalare che il Decreto legge semplificazioni prevedeva che entro centocinquanta giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni in esso contenute, Stato, regioni e autonomie locali avrebbero dovuto completare la ricognizione dei procedimenti amministrativi, sentite associazioni imprenditoriali, ordini e associazioni professionali (queste ultime, grazie a un emendamento che avevamo suggerito ed è stato accolto).

Il caso: la ricerca di Unappa

Una ricognizione che, per quanto ci riguarda, può risultare estremamente utile, poiché darebbe modo ad associazioni come la nostra di fornire un contributo specifico su un tema delicato quanto strategico quale gli adempimenti amministrativi alla luce di un’esperienza e competenza frutto di anni di lavoro sul campo, nel confronto con imprese e amministrazioni pubbliche. Per i professionisti nostri associati la gestione di una pratica amministrativa è “pane quotidiano” ed essere portatori di un’esperienza maturata in una dimensione nazionale, nelle diverse realtà territoriali del nostro paese, consente di avere uno sguardo ampio e sistematico.

Una nostra ricerca del 2017 sulle pratiche di autorizzazione amministrativa metteva in luce due aspetti di estrema importanza ai fini di una ricognizione e revisione delle procedure: la loro disomogeneità a livello territoriale, all’origine di una discriminazione territoriale che produceva chiari effetti distorsivi della libera concorrenza, e la variabilità dei costi reali degli adempimenti, che in realtà amministrative diversamente organizzate mostravano differenze tutt’altro che trascurabili.

A seguito del primo tipo di distorsioni, frequenti erano i casi in cui la collocazione di un’attività produttiva in un dato comune veniva a dipendere esclusivamente dal fatto che in quel territorio le procedure di autorizzazione amministrativa richiedessero un modulo in meno, o tempi relativamente più brevi. Esempi di come la gestione delle pratiche spesso comporti alle imprese dei costi occulti, che a loro volta sono motivo di effetti distorsivi sulla libera concorrenza. Ma anche di come la realtà organizzativa delle amministrazioni pubbliche sia caratterizzata da elevata eterogeneità, rispetto alla quale la consueta logica di considerare il Comune di Napoli o Milano pressoché equivalente dal punto di vista organizzativo quello di Maccastorna o Frascati non può ritenersi adeguata. E oggi questo secondo tipo di distorsioni sono più che mai destinate a ripercuotersi sull’utente, cittadino o impresa che sia, data l’autonomia di cui quest’ultimo gode nella gestione delle pratiche amministrative che lo riguardano.

Il ruolo degli intermediari

Un altro aspetto al quale si fa poco caso, soprattutto quando si immagina che la digitalizzazione debba necessariamente significare la scomparsa degli intermediari. Quando è ben noto che nessuna impresa, per ragioni genuinamente economiche, gestirà in proprio pratiche occasionali come quelle di autorizzazione amministrativa e che – di conseguenza – avrebbe più senso riconoscere e responsabilizzare gli intermediari, anziché ostacolarli o fare come se non ci fossero.

Una soluzione di questo tipo potrebbe venire da una maggiore sussidiarietà nella gestione del front office da parte delle amministrazioni pubbliche, attraverso la delega del controllo sulla ammissibilità formale della pratica alla responsabilità, legamente riconosciuta e sancita, degli intermediari di professione. Soluzione che potrebbe realizzarsi semplicemente accogliendo due nostre proposte, che potrebbero agevolare in maniera efficace la transazione digitale prevista dal Piano del governo: l’introduzione della figura del procuratore telematico e la certificazione di conformità degli adempimenti. La prima finalizzata a riconoscere e regolare definitivamente il rapporto che si stabilisce con chi intermedia, per conto di cittadini e imprese, le pratiche di autorizzazione amministrativa. La seconda volta a responsabilizzare l’attività di chi intermedia, consentendo al tempo stesso la realizzazione di procedure più celeri ed efficaci.

L’importanza della formazione

Il Piano richiama la trasformazione digitale anche rispetto agli obiettivi che il piano individua per le attività formative, dalla digitalizzazione di processi e strumenti di apprendimento all’incentivazione delle piattaforme di e-learning. Inoltre viene espresso ricorrentemente il termine competenza e riqualificazione che vorremmo però sapere con chiarezza cosa si intende fare per evitare di disperdere risorse come già avviene su questi temi. E’ necessario riqualificare ma dobbiamo essere chiari su cosa e come vogliamo farlo, per esempio siamo certi che sia necessario non disperdere competenze e rendere quelle che definiamo “long life learning” cioè accumulate durante la intera vita lavorativa e professionale. Essa viene inoltre indicata come lo strumento privilegiato per garantire un migliore livello di prestazioni alla sanità pubblica e l’aggiornamento tecnologico dei processi della produzione agricola. Ed è infine evocata rispetto alla fondamentale necessità di migliorare le competenze digitali diffuse dei cittadini, in rapporto alla corrispondente diffusione del cablaggio a fibra ottica e del passaggio al 5G.

Gli obiettivi specifici della trasformazione digitale

Nel merito, per quel che concerne la digitalizzazione della Pubblica amministrazione, vengono indicati come obiettivi specifici:

  1. la trasformazione digitale del settore pubblico; il rafforzamento del perimetro di sicurezza nazionale cibernetica; la realizzazione della interoperabilità delle banche dati
  2. la promozione dell’innovazione, delle capacità, delle e del merito
  3. la semplificazione sistematica dei procedimenti amministrativi, riducendone tempi e costi
  4. la digitalizzazione dei procedimenti giudiziari e l’accelerazione, all’interno di un quadro di riforma condiviso, dei tempi della giustizia
  5. il sostegno all’innovazione e alla competitività del Sistema produttivo, con particolare attenzione alle PMI ed alle filiere produttive
  6. la realizzazione della Banda larga, del 5G e del monitoraggio satellitare
  7. il rilancio in chiave sostenibile dei settori del turismo e della cultura, elevando i livelli dei servizi turistici, culturali e creativi, supportando le transizioni digitale e verde e lo sviluppo socio-economico del Paese.

Per quel che, invece, riguarda la transizione digitale delle imprese gli obiettivi specifici sono:

  1. il sostegno della transizione digitale e innovazione del sistema produttivo attraverso stimoli agli investimenti in tecnologie all’avanguardia e 4.0, ricerca e sviluppo, cybersecurity
  2. la realizzazione di reti ultraveloci in fibra ottica, 5G e satellitari, per l’ammodernamento e il completamento delle reti ad altissima capacità collegate all’utente finale nel Mezzogiorno e nelle aree bianche e grigie, nonché per garantire la connettività di realtà pubbliche ritenute prioritarie e strategiche, integrando le migliori tecnologie disponibili per offrire servizi avanzati per il comparto produttivo e della sicurezza (inclusa l’offerta di pacchetti di servizi per la gestione in sicurezza dei dati in cloud, la rindonanza delle reti strategiche, la costruzione di reti dedicate)
  3. lo sviluppo delle filiere produttive, in particolare quelle innovative, nonché del Made in Italy per aumentare la competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali, utilizzando a tale scopo anche strumenti finanziari innovativi.

Lavoro autonomo, serve più considerazione

Da un punto di vista generale, non abbiamo nulla di particolare da eccepire. Avremo peraltro modo di ritornare a discutere nel merito del Piano, una volta che prenderà la sua forma definitiva, al di là delle cifre e delle prime valutazioni di impatto già oggi in esso contenute, a seguito della definitiva approvazione da parte del Parlamento. Tuttavia segnaliamo che nelle 125 pagine del documento elaborato da Palazzo Chigi, così come nelle 172 pagine del documento elaborato dal MEF, la figura del “lavoratore autonomo” è menzionata rispettivamente solo due e una volta, e forse anche in modo improprio. Il documento, nell’analisi di contesto, segnala che tra le categorie economicamente più colpite dall’emergenza Covid-19, quella soggetta al maggior rischio in termini di perdita dei posti di lavoro e che, anche grazie al progredire della trasformazione digitale, potrebbe sperimentare una drastica contrazione occupazionale, è proprio quella del “lavoratore autonomo”.

E se non vi è dubbio che per i lavoratori autonomi il Covid-19 sia stata una catastrofe, è però altrettanto vero che l’innovazione digitale ha permesso anche la nascita di nuove figure professionali. Ne siamo un concreto esempio anche noi: il lavoro dei professionisti delle pratiche amministrative, infatti, ha proprio avuto modo di diffondersi e crescere grazie all’innovazione digitale, quando all’inizio questa sembrava essere una minaccia. E così anche l’idea per cui la nostra attività sarebbe motivata esclusivamente dalle disfunzioni della Pubblica amministrazione ne è uscita sconfitta, poiché nei fatti noi stiamo risultando fra coloro che promuovono e agevolano la semplificazione, ancor più nel contesto della digitalizzazione, della quale siamo strenui sostenitori.

Ormai il lavoro autonomo riguarda milioni di persone, e il passaggio dalla società industriale a quella dell’informazione e dei servizi ha contribuito in maniera decisiva, con il declino della grande fabbrica e l’incremento del tasso di scolarizzazione dei lavoratori, alla nascita di nuove attività diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Ciò dovrebbe essere tenuto maggiormente in considerazione dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza#Nex Generation Italia, magari destinando a questo comparto qualche risorsa aggiuntiva per la realizzazione di riforme strutturali che in prospettiva, insieme alla trasformazione digitale, potrebbero contribuire a creare occupazione e reddito. Un aggiornamento dei tanto vituperati codici ATECO, la cui inadeguatezza si è chiaramente manifestata anche in questi mesi di provvedimenti straordinari e DPCM, sarebbe già di per sé sufficiente a rimettere ordine in un ampio complesso di attività, aprendo al tempo stesso nuovi spazi per le professioni oggi in difficoltà.

Il dibattito politico e il ruolo del Parlamento

Certo, dal punto di vista politico, dobbiamo ribadire come la discussione sia ancora aperta, non solo fra le forze di maggioranza, ma anche in Parlamento, dove il confronto fra maggioranza e opposizione, indispensabile per un Piano di investimenti destinato ad incidere sul futuro del nostro paese almeno per i prossimi venti anni, non è ancora concretamente partito.

Sull’ipotesi della “cabina di regia” in precedenza avanzata da Palazzo Chigi, rispetto alla quale non disponiamo di sufficienti elementi di valutazione per esprimerci, osserviamo soltanto come una simile proposta sia sintomatica della limitata fiducia che lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri – a nostro avviso, in parte a ragion veduta – dispone nei confronti della macchina pubblica. E forse, se si vuole puntare su un’implementazione davvero efficace dei progetti del Piano, è anche necessario affiancare agli apparati burocratici di stato, regioni e autonomie locali una task force operativa quanto meno sul terreno dell’analisi e della valutazione dei risultati. Senza dimenticare quanto sul fronte dell’implementazione sia anche opportuno attivare una costante collaborazione con i diversi mondi produttivi destinatari dei provvedimenti legati al Piano.

Sulla rivendicazione di una maggiore centralità del Parlamento, rispetto alla quale siamo in linea di principio favorevoli, anche perché le priorità al centro di un programma di investimento di quasi 209 miliardi non possono che essere individuate a partire da un confronto “bipartisan”, nutriamo comunque la preoccupazione che la discussione non si trasformi in una perenne campagna elettorale. Spesso, e ciò è accaduto soprattutto in questi mesi di emergenza, il Parlamento appare distante anni luce dal paese reale, concentrato com’è in una polemica con l’occhio rivolto alle prossime elezioni, invece che in un confronto volto alla costruzione di una strategia condivisa di lungo periodo per superare l’emergenza e dare il via alla ripresa.

Le conseguenze della mancanza di unità

Per gestire un piano di questa entità occorre una forte unità di intenti. Ed è un dovere della classe politica di fronte al paese prodigarsi nel costruirla. Al mondo del lavoro e delle professioni, alla nostra categoria come a mille altre, al mondo dell’impresa, alle famiglie e ai cittadini, in questo momento, serve più che mai la concretezza di scelte chiare, ampiamente condivise e sostenibili in un orizzonte di medio-lungo periodo. Purtroppo questo scenario è ancora lontano. Finora sono stati auditi una serie di attori istituzionali e sociali (da Banca d’Italia all’Anci, dalla Confindustria ai sindacati confederali; delle rispettive audizioni sono disponibili gli atti sulle pagine web del Parlamento). La revisione del Piano ha poi visto l’intervento del MEF, che ha riscritto il documento precedentemente uscito da Palazzo Chigi subito dopo l’approvazione della Legge di Bilancio 2021 (licenziata dalle Camere prima di Capodanno). Ma una chiara road map che ci accompagni fino alla presentazione alla Commissione europea, ancora non c’è.

Il Presidente del Consiglio aveva cominciato a incontrare le forze politiche in confronti bilaterali a partire dalla sua bozza del 6 dicembre, ma senza trovare alcun intesa di maggioranza. Nel frattempo, è arrivata proprio ieri la versione del Piano licenziata dal Ministero dell’Economia e Finanza, anche se l’accordo politico non si era ancora delineato. Soltanto durante il Consiglio dei ministri di ieri sera, una maggioranza di governo ormai spaccata, per la prossima uscita dalla coalizione di Italia Viva, è riuscita comunque a deliberare la proposta di Piano da inviare alla discussione in Parlamento. E proprio in queste ore, in un momento in cui servirebbe la massima unità possibile, e un leale, aperto, confronto con le opposizioni per il bene del paese, il governo è attraversato da una profonda crisi interna.

Conclusione

Siamo quindi ancora in una fase interlocutoria. Nelle prossime settimane, una volta che saranno più chiare le sorti dell’esecutivo e l’evoluzione complessiva del quadro politico, quando la discussione sulla proposta governativa per il Recovery Fund arriverà in Parlamento, approdando a una versione definitiva del Piano, avremo modo di tornare ad intervenire su questo tema. Anche se fin d’ora ci preme sottolineare come il lento ma inesorabile incedere del tempo verso la scadenza di fine aprile non possa in alcun modo concederci ulteriori indugi. E il timore è che ancora una volta il paese corra il rischio di presentarsi all’appuntamento con il proprio futuro in ritardo.

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