FCC USA

Stretta Antitrust sui big del web, così il vento è cambiato nel mondo

Si intensificano oltreoceano le inchieste nei confronti dei big del web: nel mirino di 36 procuratori generali di Stato e della Federal Trade Commission sono finiti colossi del calibro di Google, Facebook, Amazon ed Apple. Il motivo? Contrastare la tendenza ai nuovi monopoli digitali

Pubblicato il 09 Set 2019

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

google, facebook & Co

Il vento è cambiato anche oltreoceano e si preannunciano tempi duri per i big del web e le loro condotte illecite e anticoncorrenziali.

Condotte emerse con prepotenza a seguito della vicenda Cambridge Analytica, che ha coinvolto, nello specifico, Facebook. E ancora, dopo la sanzione da 5 miliardi di dollari recentemente inflitta a Facebook per l’incapacità di tutelare i dati personali dei propri utenti, sanzione entrata nella storia come la più alta mai inflitta per violazioni di questo tipo, la società di Zuckerberg fa nuovamente notizia – in negativo – a causa di nuove ingenti fughe di dati (si parla di 419 milioni di numeri di telefono diffusi in chiaro) e per l’annuncio di una nuova app di incontri.

Tempi molto duri si preannunciano anche per Google e Amazon, la prima peraltro già sotto indagine a livello federale per violazioni delle normative antitrust e oggetto di pesanti sanzioni anche a livello europeo.

L’obiettivo delle indagini è chiaro e condiviso da entrambi gli schieramenti politici statunitensi, i quali hanno unito le forze per condurre un’azione bipartisan mirata al rispetto della legge. È la stessa Letitia James, procuratore generale dello stato di New York, nonché capo dell’indagine in corso nei confronti di Facebook, ad affermare che “anche la più grande piattaforma di social media al mondo deve seguire la legge e rispettare i consumatori”.

Nello specifico, sono molteplici le condotte illecite che si contestano ai colossi del web.

Facebook e l’acquisizione sistematica delle proprie concorrenti

Le accuse promosse nei confronti di Facebook riguardano, in primo luogo, la sistematica acquisizione da parte di questi dei propri concorrenti. Negli ultimi 15 anni Zuckerberg ha acquisito più di 70 aziende, tra le quali rientrano aziende del calibro di Instagram (1 miliardo di dollari nel 2012), Whatsapp (19 miliardi di dollari nel 2014) ed Onavo, nel 2013, alla quale si demandava il compito di analizzare quali app fossero maggiormente utilizzate dagli utenti del web per poi provare ad acquisirle o, semplicemente, ad emularne le caratteristiche. Tutte finite nel grembo di Facebook che ha in tal modo fatto terra bruciata di buona parte dei propri concorrenti attuali e potenziali.

In questo modo, secondo quanto statuito dalla Federal Trade Commission, Facebook ha sostanzialmente azzerato la concorrenza. C’è anche chi non è dello stesso avviso, tra cui Will Castleberry, che riveste la carica di “Vice President of State and Local Policy” di Facebook, il quale ha ribattuto alle accuse sostenendo che l’innovazione è parte del processo stesso di crescita di ogni piattaforma, Facebook inclusa. Il continuo sviluppo avrebbe come unico fine quello di fidelizzare i propri utenti, evitando che gli stessi abbandonino rapidamente la piattaforma.

Al centro delle indagini, anche le modalità di gestione dei dati dei propri utenti ed il progressivo aumento dei prezzi degli annunci pubblicitari.

Google e la posizione dominante sul mercato pubblicitario

A capo della squadra di procuratori generali che condurranno l’inchiesta nei confronti di Google e della holding Alphabet, vi è il procuratore del Texas Ken Paxson. Le indagini riguarderebbero le pratiche adottate dal motore di ricerca e l’impatto di quest’ultime sul mercato della pubblicità online e sui dati dei consumatori.

Nello specifico, Google avrebbe alterato la concorrenza strutturando i propri algoritmi di ricerca in modo tale da porre in capo ai risultati ottenuti i propri prodotti, deviando in tal modo l’attenzione del consumatore verso i servizi offerti dalla stessa, ivi incluse app, acquisto di prodotti online, ed altro.

Come già anticipato, non è la prima volta che Google si trova al centro di pesanti inchieste aventi ad oggetto l’accertamento di comportamenti anticoncorrenziali: il comportamento del colosso nel mercato digitale avrebbe sinora generato costi per multe e sanzioni irrogate dall’Antitrust europeo per un ammontare complessivamente superiore agli 8 miliardi di dollari.

Le multe inflitte a Google dall’Antitrust riguardano in particolare:

  • l’abuso della propria posizione dominante sul mercato e l’imposizione di un numero di clausole restrittive nei contratti stipulati con siti web di terzi che avrebbero impedito ai concorrenti di posizionare la loro pubblicità su tali siti;
  • lo sfruttamento del sistema operativo mobile Android al fine di indurre l’utente ad utilizzare le proprie applicazioni in luogo di quelle sviluppate da aziende rivali;
  • l’utilizzo scorretto del proprio servizio di shopping comparativo.

Non mancano i problemi anche sul fronte della tutela della privacy dei propri utenti: la Federal Trade Commission ha già punito Google per aver violato la legge federale sulla privacy dei bambini, tracciando illecitamente gli utenti al di sotto dei 13 anni senza raccogliere il consenso dei genitori ed ulteriori indagini sono in corso per accertare se Google abbia o meno consentito alle aziende che vendono pubblicità di profilare gli utenti nel dettaglio (si parla persino di acquisizione di dati relativi alla salute, agli orientamenti politici e sessuali) tramite funzionalità nascoste.

Amazon ed il posizionamento privilegiato dei propri prodotti

Attualmente, quasi la metà del commercio digitale mondiale transita da Amazon. È innegabile, dunque, quale e quanto sia il potere esercitabile dallo stesso nei confronti dei propri concorrenti e delle piccole società terze che intendono vendere sulla piattaforma di Jeff Bezos i propri prodotti.

Due, in particolare, sarebbero i comportamenti poco trasparenti ed anticoncorrenziali che Amazon porrebbe in essere.

In primo luogo, si contesta alla piattaforma di e-commerce di aver abusato delle modalità di posizionamento dei propri prodotti all’interno non solo dei risultati di ricerca, ma altresì nella pagina di descrizione e acquisto del prodotto scelto dall’utente.

Da una inchiesta condotta dal “The Washington Post” sembrerebbe che, in dozzine di ricerche effettuate, l’algoritmo di Amazon ponga in risalto, sia nei risultati della ricerca che negli “Oggetti simili”, i prodotti dei propri brand, collocandoli all’interno della pagina esattamente al di sopra del tasto “Aggiungi al carrello” e conducendo l’utente finale ad acquistarli.

Ove si tenga conto, altresì, del fatto che i prodotti Amazon siano venduti ad un prezzo inferiore rispetto alla concorrenza, è chiaro che Amazon cerchi di alterare il principio della libera concorrenza a proprio vantaggio tramite una strategia piuttosto aggressiva, sebbene tutto sia stato smentito dai legali di Amazon.

Non è chiaro, inoltre, secondo quali modalità il badge “Amazon’s choice sia affidato ai prodotti: non è raro che la merce che si fregiasse di tale riconoscimento fosse ben più scadente di quanto i consumatori si aspettassero.

Al centro delle indagini, in secondo luogo, il contenuto delle clausole contrattuali sinora adottate da Amazon nei confronti dei venditori di terze parti intenzionati a vendere i propri prodotti sulla piattaforma: il contenuto delle stesse proibirebbe a questi ultimi di vendere i propri prodotti a prezzi più bassi su piattaforme differenti.

Nonostante le clausole oggetto di censura siano state modificate nel marzo di quest’anno, Bloomberg ha evidenziato come i comportamenti “abusivi” da parte di Amazon non siano cessati: la società di e-commerce avrebbe accuratamente analizzato le liste dei venditori che utilizzano anche piattaforme concorrenti, intimandoli ad alzare i propri prezzi, pena la perdita di determinati benefici come il posizionamento nei risultati delle ricerche.

Conclusioni

Il processo di riforma del mercato digitale è ormai iniziato e anche gli USA si sono uniti all’Unione Europea al fine di esercitare un controllo su pratiche commerciali scorrette sinora liberamente poste in essere da parte dei protagonisti del digitale e del mercato online. Non si può non auspicare indagini accurate e severe sul modus operandi delle “Big Tech companies” e la conseguente imposizione di rigide regole a tutela della libertà di concorrenza e della privacy, pur facendo salve le peculiarità del mondo digitale.

Tutto ciò sia al fine di evitare che simili comportamenti possano ripetersi in un futuro più o meno prossimo, sia per rendere consapevole l’utenza che fa talvolta eccessivo affidamento a tali servizi, in funzione di una gestione più trasparente e responsabile dei propri dati e delle proprie scelte.

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