CULTURA DIGITALE

Bambini e display, non è apocalisse: cosa dicono gli studi scientifici

Fautori del “timing rigido” (non più di un’ora al giorno) contro teorici del digitale come supporto allo sviluppo cognitivo. In mezzo il benessere di un individuo che va accompagnato nella ricerca della propria autonomia, al di là dei mezzi utilizzati per raggiungerla. I risultati delle più recenti ricerche sul tema

Pubblicato il 19 Feb 2020

Daniela Di Donato

Docente di italiano (Liceo scientifico), PhD in Psicologia sociale, dello sviluppo e della Ricerca educativa presso Sapienza Università di Roma, esperta di metodologie didattiche, inclusione e uso delle tecnologie digitali a scuola.

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Uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics avverte che l’alfabetizzazione e le abilità linguistiche dei bambini soffrono dell’uso dello schermo e che le scansioni MRI del loro cervello sembrano sostenere i risultati. Ma davvero l’esposizione agli schermi è così dannosa oppure ancora non siamo in grado di sostenerlo con certezza? Cerchiamo di fare chiarezza alla luce dell’attuale letteratura.

Lo studio interessato ha compreso un gruppo di 47 bambini di età compresa fra tre e cinque anni. Sono stati sottoposti ad un test che ha misurato le loro capacità cognitive, mentre ai loro genitori è stato chiesto di rispondere a un sondaggio dettagliato sulle abitudini circa il tempo trascorso dai figli davanti allo schermo: con quale frequenza usano il dispositivo? Che tipo di contenuto stanno visualizzando? C’è un adulto seduto accanto al bambino, che interagisce con lui e che parla di ciò che sta guardando?

Le risposte sono state valutate e confrontate poi con le Linee guida dalla Società americana di Pediatria, che si è espressa sul tempo massimo che i bambini dovrebbero trascorrere in attività sedentarie, tra le quali anche quelle davanti ad uno schermo. I bambini del campione di ricerca sono stati poi sottoposti anche ad una risonanza magnetica. Le scansioni hanno rivelato dei parziali cambiamenti nell’integrità della guaina mielinica che garantisce la rete di comunicazione interna al cervello: il grasso che riveste la sua superficie facilita lo scorrere dei segnali elettrici da un’area all’altra, favorisce l’organizzazione delle fibre nervose ed è associata alla funzione cognitiva, che si sviluppa insieme al linguaggio.

Bambini e schermi, l’esito del test

Per dirla tutta, non è proprio così scontato stabilire questa connessione, cioè associare uno scarso sviluppo delle abilità linguistiche con il mancato sviluppo di quell’area del cervello e collegare entrambi all’eccessiva esposizione agli schermi. E 47 bambini sono un po’ pochi, anche se la procedura di ricerca è stata complessa e possiede il privilegio del rinforzo dato dall’indagine radiologica. Potrebbe anche essere accaduto che, proprio perché alcuni bambini avevano una bassa alfabetizzazione e altre difficoltà, trascorrevano più tempo davanti agli schermi.

Perfino le Linee Guida dell’OMS suggeriscono alcune attenzioni, che andrebbero tenute nei confronti dell’infanzia, e la chiave di lettura non è così apocalittica. Sotto i due anni di età l’esposizione agli schermi è sconsigliata: i bambini dovrebbero dedicarsi di più ad attività variamente stimolanti e ad una esplorazione più fisica che digitale. Dai due ai quattro anni mai più di un’ora in modalità passiva va dedicata agli schermi (quindi sia tv che tablet o smartphone). Jordan Shapiro dell’Oms ribadisce che l’identità è legata al contesto storico: i giovani sono fortemente connessi ad una rivoluzione digitale, gli adulti quella rivoluzione sembrano averla subita e le diverse prospettive entrano in collisione tra loro.

Bambini di fronte allo squilibrio reale-virtuale

Il compito degli adulti è di entrare nel mondo digitale dei bambini e dei ragazzi, esplorarlo con lo scopo di saperli guidare per aggiungere ciò che magari manca o loro non vedono, come un’etica della dimensione tecnologica, i valori di riferimento, la giusta prudenza di fronte agli squilibri tra reale e virtuale, che potrebbero presentarsi, ma anche per mostrare la bellezza, la ricchezza, la creatività che quello stesso mondo potrebbe lasciar loro esprimere. Non va infatti dimenticato che coltivare la motivazione intrinseca dei bambini e fornire le giuste opportunità anche in un mondo digitale non è sbagliato.

La Commissione scienza e tecnologia del Parlamento del Regno Unito, dopo un’inchiesta sull’impatto di social media e screen time nei giovani, ha evidenziato che non c’è alcuna autentica attendibilità nelle ricerche scientifiche che vedono solo un pericolo nelle tecnologie e nel digitale. Quel che le rende inaffidabili sono difetti di metodo, e nella ricerca il metodo è (quasi) tutto.

Kadefelt-Winther, ricercatore dell’Unicef, riconosce che non ci sono al momento evidenze scientifiche per definire una linea di condotta rispetto allo screen time dei bambini ed evidenzia possibili risvolti negativi di regole troppe rigide. Anche se sarebbero d’accordo sul fatto che la tecnologia digitale è importante per vivere una vita piena e sviluppare il proprio potenziale, gli adulti fissano comunque regole rigide sul tempo da dedicare allo schermo e all’esplorazione del digitale e in fondo potrebbero aver privato innumerevoli bambini della libertà di perseguire i loro interessi in un mondo digitale. Questo ruolo poliziesco che si sono autoassegnati priva gli adulti della possibilità di pensare al coinvolgimento sano dei bambini nel digitale.

La traccia del digitale nel cervello

Le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli, ci dice anche la neuroscienziata Susan Greenfield nel libro ” Mind Change: How Digital Technologies Are Leaving Their Mark on Our Brains” (2015). Il nostro cervello ha una fenomenale plasticità, che “funge da naturale transizione per pensare al futuro e a come le nuove generazioni potranno adattarsi allo scenario altamente tecnologico dei prossimi decenni”. La Greenfield non è certo una fan sfegatata della tech revolution, ma la sua onestà intellettuale le impedisce di radicalizzarsi su una posizione marmorea sull’argomento. La sua riflessione è rivolta alla capacità dei social media, dei videogiochi e dei motori di ricerca di “ricablare” i cervelli umani, ma allo stesso tempo di poter incidere anche sui disturbi dello sviluppo. Il videogioco per esempio può migliorare il controllo visivo e motorio de bambini con bisogni speciali o difficoltà nella concentrazione.

Facendo riferimento a numerosi studi e ricerche, Greenfield spiega come le tecnologie hanno il potere di trasformare non solo cosa pensiamo, ma anche come lo pensiamo.

Computer, tablet e e-reader possono dare informazioni in un modo completamente diverso, non verbale e quindi possano effettivamente trasformare il modo in cui pensiamo? Se le informazioni arrivano al cervello come immagini e figure invece che parole, è possibile che predispongano automaticamente il soggetto a vedere le cose in modo più letterale piuttosto che in termini astratti?

Bambini, il diritto al gioco (anche digitale)

Il gioco (anche il videogioco) è consacrato come un diritto fondamentale di tutti i bambini. È riconosciuto come essenziale per lo sviluppo di creatività, immaginazione, fiducia in se stessi, autoefficacia e una gamma di abilità sociali, cognitive ed emotive. Le tecnologie digitali possono facilitare questo sviluppo, sebbene in modi nuovi che le generazioni più anziane potrebbero non apprezzare ancora del tutto.

Piattaforme e social network virtuali creano nuovi ambienti culturali per opportunità di gioco e occasioni artistiche che possono ampliare gli orizzonti di un bambino, offrire opportunità di apprendimento da altre culture e tradizioni, sperimentare l’autonomia e contribuire alla comprensione reciproca e all’apprezzamento della diversità. Questa è una autonomia, in cui i bambini e gli adolescenti partecipano e fanno le proprie scelte, esprimono le proprie opinioni e si assumono la responsabilità: va trovato un equilibrio tra il diritto di un bambino di essere protetto e il suo diritto di avere un’autonomia progressiva nel prendere decisioni sulla propria vita. Quando poi ci si riferisce all’uso passivo del digitale o degli schermi forse dovremmo ricordarci anche di quegli adulti che postano le foto dei loro bambini in ogni momento della giornata, delle loro pappe, dei loro ruttini, dei primi passi e di quando lanciano il ciuccio a terra allo stesso modo in cui pubblicano foto di cuccioli e gattini.

Roger Hart è Professore di Psicologia Ambientale presso la University of New York e ha elaborato nei primi anni Novanta una “Scala della partecipazione dei bambini”, cioè una classificazione della partecipazione intesa come il mezzo con il quale sono costruiti i processi democratici e lo standard attraverso il quale la democrazia stessa andrebbe misurata. Il livello di partecipazione che bambini e ragazzi possono avere nei processi, che li riguardano, è argomento di grande discussione perché i bambini sono i meno ascoltati dai membri della società e hanno opportunità limitate di partecipazione autentica, in fondo gli adulti sottovalutano le loro competenze.

Le opportunità di gioco libero con i coetanei stanno diminuendo per la paura sulla loro sicurezza, gli schemi di lavoro dei genitori e le crescenti pressioni per il rendimento scolastico. La partecipazione, il coinvolgimento e la “pratica della democrazia” non possono insegnarsi a parole, ma solo con la pratica, graduale e costante, attraverso tutte le età. Per questo ha senso parlare di partecipazione anche per i bambini, sempre che si tenga presente che l’oggetto da condividere deve essere un loro oggetto di vita.

Sapete qual è il grado di massima attività partecipativa nella scala di Hart? Quando i destinatari dei progetti (i bambini e i ragazzi) definiscono inizialmente gli obiettivi, e le decisioni operative sono prese e messe in atto insieme agli adulti, anche con variazioni in itinere. Le tecnologie sono una opportunità che consente anche di offrire ai bambini delle esperienze che favoriscono la creazione di connessioni fra le diverse parti del cervello. Il grado più basso della partecipazione dei bambini, nella scala? Quando gli adulti o gli ideatori di un’azione “utilizzano” i gattini. Ops, scusate. I bambini.

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