Geopolitica e digitale

Big tech e la Cina: il cortocircuito tra diritti fondamentali e interessi economici

La vicenda di Hong Kong e delle app oscurate da Apple e Google fa affiorare in modo abbastanza chiaro quelli che potrebbero essere i trend futuri, con prospettive non proprio a favore dei cittadini. Ecco perché è fondamentale una corretta governance dei fenomeni legati all’interconnessione tra politica e tecnologia

Pubblicato il 31 Ott 2019

Dario Antares Fumagalli

legale specializzato in privacy e data protection

social

Non possono e non devono passare inosservate le scelte di evidente matrice politica compiute dai colossi hi-tech americani nel contesto delle delicate vicende in corso a Hong Kong e che evidenziano oggi più che mai la centralità strategica di una corretta governance dei fenomeni scaturenti dalla peculiare forma di interconnessione tra politica e tecnologia tipica dei nostri giorni: davvero vogliamo che aziende private che si muovono solo in nome del profitto possano decidere di fornire o privare i popoli di strumenti e risorse necessari per combattere le proprie battaglie?

Le vicende di Hong Kong e, come vedremo, delle app oscurate da Apple e Google fanno, insomma, affiorare in modo abbastanza chiaro quelli che potrebbero essere i trend futuri, con prospettive non facilmente digeribili per i cittadini.

Centrale, per comprenderne il senso, il ruolo della Cina non solo sullo scacchiere economico globale, ma anche in qualità di principale produttore e distributore delle cosiddette terre rare, materie prime indispensabili per la produzione di componenti essenziali dei dispositivi tecnologici quali notebook e smartphone.

Hong Kong, le scelte controverse di Apple e Google

Viviamo in un tempo in cui i fenomeni dell’esistenza umana individuale e collettiva si sviluppano entro uno spazio di cui la realtà virtuale è fattore, ma non ne esaurisce la natura.

Non è la somma tra l’analogico e il virtuale a caratterizzare il nostro tempo, ma lo spazio esploso dall’alchimia tra le due realtà, che sempre di più costituisce teatro degli eventi, anche politici e geopolitici.

Che non vi sia soluzione di continuità tra i due contesti è ben dimostrato dal filo rosso che collega i fatti che stanno scuotendo la città di Hong Kong – con ampio riverbero sulla stampa internazionale, visto il coinvolgimento della superpotenza cinese – e alcune scelte, aventi apparentemente natura commerciale ma, in realtà, di evidente matrice politica, che stanno operando alcuni colossi del settore ICT.

Apprendiamo, ad esempio, che Apple ha rimosso dal suo store una app (HKmap.live), dopo averla autorizzata, che veniva utilizzata dai manifestanti per segnalare su una mappa la posizione della polizia e la chiusura di strade. Attorno all’app in questione era montata, infatti, una polemica, sollevata da organi di stampa ufficiali cinesi (People’s Daily), che ad essa attribuiva la responsabilità di facilitare atti violenti, anche contro singoli agenti delle forze dell’ordine. La società, ovviamente, ha negato. Ad ogni modo, la scelta di Apple non può passare inosservata, specie se la si mette in connessione con la retorica che, dalle primavere arabe in poi, ha visto in occidente elevare social network ed affini a strumenti di liberazione dall’oppressione di regimi o governi autoritari.

Anche Google, d’altro canto, ha fatto scelte che suonano ispirate da ragioni non strettamente economiche, sempre in merito alla distribuzione sui propri canali di app aventi contenuti afferenti alla delicata vicenda di Hong Kong. Si trattava, in questo caso, di un’app che permetteva agli utenti di impersonare un manifestante ed assumere, nei suoi panni, decisioni dalle conseguenze più o meno nefaste per l’avatar. La motivazione della rimozione offerta da Google è che violasse le policy che vietano di capitalizzare su eventi tragici o conflitti, ma anche questa scelta ha causato enormi polemiche anche tra i dipendenti.

Ciò che sorprende è che soggetti mossi spesso da politiche assertive nei confronti degli Stati e dei loro interessi – passate ufficialmente sotto forma di neutralità politica – in questo caso sembrano optare per una direzione più prudente e attenta alle istanze statali, anche a costo di sollevare polemiche interne e perdere quote di profitti o di appeal su mercati, pur locali, importanti.

Il ruolo della Cina

Ciò è probabilmente spiegabile con il ruolo che la Cina ha sullo scacchiere globale, ossia quello una potenza globale e di un’economia (la seconda su scala mondiale) che, peraltro, sta investendo pesantemente nello sviluppo di infrastrutture tecnologiche (vedi BRI e 5G). Non solo, come abbiamo già accennato, vi sono anche, probabilmente, ragioni più specifiche, quale ad esempio il ruolo centrale (anzi, predominante) della Cina nella produzione e distribuzione delle cosiddette terre rare, materie prime indispensabili per la produzione di componenti essenziali di devices tecnologici quali notebook e smartphone, la cui distribuzione nel sottosuolo premia particolarmente il gigante governato da Pechino.

Si avviluppa così la spirale tra tecnologia e spazio immateriale, interessi politici e spazio fisico, che incarna la cifra del nostro tempo.

Il rapporto tra ICT e politica

In particolare, emerge chiaramente, in tutti i suoi profili paradossali, il rapporto controverso tra grandi produttori di infrastrutture o erogatori di servizi dell’ICT e Stati. Infatti, è piuttosto ingenuo pensare o, addirittura, sostenere che enti – qualunque sia la natura di questi – dalla cui attività e dalle cui scelte dipende la diffusione e la stessa architettura del substrato sul quale si svolge ormai qualsiasi attività sociale, dalle più superflue della quotidianità individuale alle più essenziali su scala collettiva, possano essere scevri da interessi politici in senso stretto.

Le ragioni del mercato, ammesso che abbiano realmente natura parallela a quelle politiche, non possono infatti esaurire la sfera di istanze che sorgono attorno alla gestione di fattori fondamentali (quali risorse ed infrastrutture) dell’architettura sociale.

Dai fatti di Hong Kong si possono facilmente delineare quelli che potrebbero essere i trend futuri, non proprio favorevoli per i cittadini.

Infatti, se per certi versi la relazione tra colossi ICT e comunità politiche può essere vista come una replica, pur esasperata, di quella tra produttori di energia (come il petrolio) e Stati, vi sono differenze non trascurabili che mutano anche qualitativamente ciò che la storia ha già sottoposto alla nostra attenzione e che, dunque, potremmo avere la presunzione di poter risolvere con strumenti noti.

La differenza tra quanto già visto e i giorni nostri, infatti, è che l’oligopolio di fatto costituendo (o costituito) in capo ai grandi dominatori dell’info-sfera intacca in modo diretto alcuni tra i più delicati diritti fondamentali individuali. La “benzina” o i “veicoli” confezionati e distribuiti dalle OTT e affini, servono ad esempio a manifestare il nostro pensiero, a diffondere notizie e a comunicare tra noi oltre a pervadere trasversalmente ogni altro ambito della vita, dal momento che l’attuale transizione ci sta proiettando in un mondo in cui tutto, dalla medicina ai trasporti fino alle apparecchiature militari, è smart.

Big Tech, diritti fondamentali e interessi economici

Perciò, a prescindere dalla sensibilità di ognuno in merito alla vicenda di Hong Kong, la domanda che sorge spontanea è se sia giusto che scelte impattanti su questioni strettamente attinenti all’autodeterminazione delle nostre comunità politiche restino in capo ad aziende, la cui governance non è ispirata a principi democratici (o a qualsiasi altra forma rappresentativa di distribuzione del potere).

Può (e vorrà mai) un’impresa farsi carico di presidiare diritti fondamentali o garantire le minoranze e l’intangibilità delle forme (vera colonna portante dei sistemi democratici costituzionali) anche quando questo confligge apertamente con gli interessi di natura economica dai quali dipende la sua stessa sopravvivenza? Vogliamo noi accettare che decisioni di così rilevante portata siano prese da organi non solo spiccatamente autarchici o oligarchici (come è un  cda o un Presidente di società) ma anche sempre coperti dall’alibi della natura economica e non politica della loro raison d’etre? Con l’alibi del profitto come fine dichiarato e legittimo, si recide ogni forma di connessione che, in ambito politico, insiste perfino tra i più autoritari dei governanti e i loro popoli.

Quando questi soggetti, possono decidere di fornire o privare i popoli di strumenti e risorse necessari per combattere le proprie battaglie (condivisibili o meno, a seconda del proprio orientamento), la domanda di cui al precedente paragrafo non può essere più elusa.

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