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Sette azioni per migliorare il procurement pubblico pro innovazione

Il procurement pubblico può diventare leva di una trasformazione digitale più integrata e collaborativa, fra le priorità lo stimolo agli strumenti di e-procurement, la collaborazione fra territori, un miglior utilizzo dei fondi

Pubblicato il 08 Ott 2018

Luca Gastaldi

Direttore dell'Osservatorio Agenda Digitale e dell’Osservatorio Digital Identity del Politecnico di Milano

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La carta dei principi tecnologici del procurement, redatta dal Team per la Trasformazione Digitale, è un’iniziativa interessante ma fragile.

Interessante perché prova a cambiare gli acquisti pubblici del nostro Paese senza ricorrere a leggi – puntualmente disattese – ma contando sulla capacità di PA e fornitori di adottare volontariamente degli accordi basati su alcuni principi di fondo molto condivisibili. Fragile perché rischia di rimanere “sulla carta” se non gli si abbinano una serie di azioni complementari atte a costruire un contesto di procurement pubblico in cui la carta risulti efficace.

Quali azioni? A me ne vengono in mente sette.

  1. Recepire i provvedimenti attuativi del Codice dei contratti pubblici. Mentre si pensa per l’ennesima volta di rivedere il Codice Appalti, sarebbe opportuno recepire gli oltre 30 provvedimenti attuativi necessari a renderlo pienamente operativo. È ovvio che un Codice monco non funziona. Fino a quando le regole del gioco non saranno chiare, sia i fornitori che le PA avranno alibi per anteporre ai principi della carta di Piacentini le logiche “difensive” usate precedentemente. Bisogna aiutare l’ANAC, che sul fronte degli acquisti pubblici è spesso collo di bottiglia normativo, a recepire il più velocemente i provvedimenti mancanti.
  2. Favorire gli acquisti di innovazione digitale. Se proprio dobbiamo rivedere il Codice, facciamolo per consentire alle PA di comprare innovazione digitale. Oggi, in ambito di procurement pubblico, si compra quasi esclusivamente al massimo ribasso, anche se la Comunità Europea chiede da alcuni anni di premiare la qualità delle soluzioni, soprattutto in ambito tecnologico. Le scelte dei provveditori sono guidate dalla paura di sbagliare più che dalla voglia di innovare e l’attuale Codice degli appalti legittima questo comportamento. Si era ipotizzato di imporre l’offerta economicamente più vantaggiosa per gli acquisti di tecnologia digitale. Nel correttivo del 2017 al Codice, tuttavia, si è preferito tornare a consentire alle PA di “spremere” i fornitori guardando solo al prezzo. Se non si riesce a premiare la qualità la carta dei principi tecnologici sarà difficilmente applicabile.
  3. Incentivare le collaborazioni tra pubblico e privato. Già oggi, nel nostro ordinamento giuridico, esistono strumenti che potrebbero essere molto utili in questo senso: dialoghi competitivi, appalti pre-commerciali, partenariati per l’innovazione. Attualmente questi strumenti di eprocurement sono conosciuti poco e usati ancora meno nel nostro Paese. Bisogna allora spigare quando e come convenga usarli, gli errori da evitare e i benefici da attendersi nel loro impiego. Bisogna poi affiancarsi agli enti che li utilizzeranno. A questo proposito, il protocollo di intesa firmato fra AgID, Confindustria e Regioni mi sembra potenzialmente molto utile. Ora bisogna concretizzare quanto scritto nero su bianco.
  4. Favorire la collaborazione istituzionale sui territori. Sto pensando in particolare a 3 attori: le Regioni, le Società Inhouse tecnologiche e i soggetti aggregatori. Queste realtà dovrebbero gestire in modo sinergico i processi di procurement pubblico sui loro territori. Le Regioni manifestano le esigenze di sviluppo del territorio in sinergia e con il supporto delle Società Inhouse, quando presenti, in particolare per gli acquisti più innovativi. I soggetti aggregatori si preoccupano dell’approvvigionamento e dell’interazione con i privati, con l’obiettivo di gestire efficientemente gli acquisti non strategici, evitando il frazionamento della spesa, e di supportare i processi di procurement pubblico da un punto di vista metodologico. Così dovrebbe funzionare sulla carta. In pratica la situazione è molto frammentata: si vedono tanti modelli diversi nelle Regioni, non sempre c’è una società in house, o un soggetto aggregatore forte, e ognuno gioca partite in autonomia, senza confrontarsi pienamente con gli altri attori. In questa pluralità, serve più coordinamento fra i tre attori dai quali passano gli acquisti – sia innovativi che non. Altrimenti non riusciremo a scrivere bandi che progressivamente recepiscano quanto suggerito dalla carta di Piacentini.
  5. Fare formazione a PA e imprese. Più in generale bisognerebbe fare formazione a PA e imprese sui temi del procurement. Molte PA locali, ad esempio, non sanno di poter beneficiare degli accordi quadro SPC per attuare quanto previsto nel Piano triennale. Sono ancora troppo poche le imprese che offrono alle PA i loro prodotti/servizi digitali tramite il MePA. Il risultato è che a livello di sistema Paese si perdono enormi opportunità di trasformazione digitale. Eccellenze ne abbiamo – sia in ambito pubblico che in ambito privato. Ciononostante, tali eccellenze rimangono isole felici in un mare di inconsapevolezza. È necessario condividere e portare a sistema le buone pratiche di procurement pubblico, mettendo insieme le forze per superare i limiti dimensionali di molti enti pubblici e privati. Senza PA e imprese pienamente consapevoli degli strumenti di procurement nelle loro mani è impossibile concretizzare i principi tecnologici previsti dal Team digitale.
  6. Migliorare l’usabilità delle attuali piattaforme di eProcurement. Molti degli acquisti di tecnologia digitale sono oggi effettuati dalle PA in modo autonomo e “a scaffale”, sfruttando le piattaforme elettroniche dei Soggetti aggregatori. Purtroppo tali piattaforme hanno in molti casi interfacce poco usabili che non solo disincentivano ma spesso impediscono materialmente acquisti consapevoli e basati su un confronto effettivo delle varie alternative disponibili. Prima di pretendere che PA e imprese si comportino seriamente in fase di gara, regolamentandone i comportamenti su base volontaria, bisognerebbe mettere a posto le attuali interfacce su cui sono scambiati la gran parte di prodotti e servizi tra mondo pubblico e i privati.
  7. Usare le risorse già disponibili. Solo grazie ai fondi strutturali messi a disposizione dell’Europa fino dal 2014 al 2020 (FESR, FSE, FEASR, FEAMP), abbiamo a disposizione oltre 1,2 miliardi di euro l’anno per attuare la trasformazione digitale delle PA italiane. Gli ultimi dati del comitato che monitora l’impiego di queste risorse sono allarmanti: alla metà dei sette anni disponibili per spendere il denaro a nostra disposizione abbiamo allocato meno del 20% delle risorse. È vero che tali ritardi sono prevalentemente dovuti all’avvio delle operazioni sui fondi strutturali. Senza accelerazioni, tuttavia, si rischia di buttare alle ortiche molto denaro potenzialmente impiegabile per approvvigionarsi di innovazione digitali, con buona pace della carta dei principi tecnologici del procurement.

L’approvvigionamento pubblico nel nostro Paese sembra ancora vittima di un pregiudizio che lo vede come fonte di inefficienza (quando non di corruzione) piuttosto che di innovazione. Le gare pubbliche sono ancora disegnate e gestite con la principale preoccupazione di prevenire ricorsi e contenziosi, mentre sono ancora troppo poche le PA che cercano di acquisire nel minor tempo possibile la migliore soluzione disponibile. Le imprese, dal canto loro, si concentrano non tanto sul disegnare soluzioni efficienti e innovative, che diano reale valore al cliente pubblico, quanto nell’adempiere a ogni formalismo richiesto in fase di gara e prevenire ricorsi pretestuosi dei concorrenti. Così facendo, si sprecano le migliori energie a recitare “liturgie” che tutti sanno formali e inutili. Il risultato di questa duplice spinta, alimentato dall’incertezza normativa, è che si finisce per allontanare dal settore pubblico quella parte di mercato sana e dinamica che potrebbe portare competenze ed energie essenziali per la trasformazione della PA e dell’intero Paese.

Preso atto che ogni “tentazione” di ritorno a una gestione frammentata e locale della spesa pubblica sarebbe improponibile e dannosa, è urgente un impegno da parte di tutti per trasformare il procurement da ostacolo all’innovazione, qual è oggi, a leva capace di spingere il sistema verso un modello di governance della trasformazione digitale più integrato e collaborativo.

Piacentini poteva fare molto di più su questo fronte. Come tutti noi. Invece che puntare il dito contro l’ormai ex commissario dobbiamo prendere tutti consapevolezza che il rinnovo dei processi di approvvigionamento nel mondo pubblico richiede molto di più di una carta di principi da seguire e molto più di un commissario straordinario. Servono gioco di squadra e impegno da parte di tutti, coraggio di cambiare e risposte chiare ai dubbi di chi ha paura di sbagliare.

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