L'ANALISI

Digitale scudo anti-corruzione, ecco perché l’Italia ne ha bisogno

E’ ormai appurato che la diffusione delle nuove tecnologie sia strettamente correlata al contenimento dei fenomeni di illegalità. L’Europa, ma non solo, è impegnata con successo nell’applicazione di policy mirate. Ma il nostro Paese è fermo al palo: vediamo le strategie necessarie e gli ostacoli da superare

Pubblicato il 13 Lug 2020

Manuel Salvi

Security, Compliance, Risk Consultant

anticorruzione

La digital transformation è nemica della corruzione: un principio che trova conferma in pratiche e programmi attuati da una molteplicità di Governi. Ma su questo fronte, Indice Desi e classifiche internazionali inchiodano l’Italia agli ultimi posti per efficienza. Cosa si può e si deve fare.

Digitale una cura per la corruzione

“La corruzione rimane una delle sfide più complesse da affrontare. Erode le stesse istituzioni create per proteggere i cittadini. È un fallimento della governance, che deve essere affrontato con urgenza. Abbiamo un’opportunità storica per fare la differenza: utilizzare le tecnologie digitali per combattere la corruzione in modo più efficace” dice Angel Gurría, Segretario Generale OCSE – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

«Abbiamo calcolato il fattore di correlazione lineare tra la classifica sulla corruzione redatta da Transparency International e la graduatoria dei paesi membri dell’Ue con il maggior grado di sviluppo digitale. Gli statistici gridano al miracolo quando trovano dei fattori che si avvicinano al 70%: ebbene, nel nostro caso l’indice di correlazione ha superato il 90%, un risultato impressionante» affermava già nel 2015 Luca Attias, allora Direttore Generale Sistemi Informativi Corte dei Conti, divenuto poi Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale e ora all’inizio della sua avventura a capo del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

In termini di posizionamento dell’Italia nelle classifiche internazionali di Digitalizzazione e Corruzione, poco sembra purtroppo essere stato fatto. Se la magra consolazione risiede nell’evidenza che anche gli altri paesi non accelerano, rimane il rammarico di non riuscire a fare quel necessario scarto in avanti per allungare il passo.

Covid-19 agente di digitalizzazione

Oggi divertenti vignette irridono la capacità italiana pubblica e privata di divenire pienamente digitali. Una di queste, che particolarmente mi diverte, rappresenta una domanda a risposta multipla. La domanda è: “Chi è l’artefice della trasformazione digitale della tua Organizzazione?”. Le caselle non barrate e che “bocciano” questi attori come i decisori del processo di digitalizzazione sono relative alle figure di CEO e di CTO, ruoli che dovrebbero esserne i veri artefici. La casella barrata rivela il vero promotore della digitalizzazione italiana che a tutti gli effetti sembra essere purtroppo il Covid-19.

Smartworking improvvisato a lockdown in corso; conference call con strumenti divenuti in pochi giorni pane quotidiano degli italiani; collasso della banda o sfarfallamento delle immagini, che hanno aperto finalmente gli occhi sull’arretratezza del piano nazionale; oggi l’amara classifica internazionale relativa al livello della digitalizzazione italiana sembra un amaro conto da pagare.

L’arretratezza tutta italiana (i nostri compagni di viaggio in fondo alla classifica del CPI Index sono Cipro, Ungheria, Polonia, Grecia, Romania e ultima della classe Bulgaria) a livello digitale fa il paio con il nostro posizionamento nelle classifiche internazionali relative alla corruzione, dove ci collochiamo più o meno in compagnia dei medesimi paesi, facendo peggio di noi in ambito europeo solo Slovacchia, Grecia, Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria.

Nel mondo secondo l’Indice di Percezione della Corruzione – CPI siamo cinquantunesimi con un punteggio pari a 53. La migliore della classe per l’Europa è la Danimarca che colleziona 87 punti. Un abisso.

I 3 step per un digitale a prova di corruzione

Attias in un articolo pubblicato sulla rivista Wired nel novembre 2019 preannunciava profetico: “Anche se è presto per dirlo, sono abbastanza convinto di non essere riuscito a far scalare all’Italia molte posizioni nel Desi– l’indice europeo che misura il livello di attuazione dell’agenda digitale nei diversi Paesi dell’Unione – e, conseguentemente, non sono riuscito a far scalare all’Italia molte posizioni su Transparency International. Se la correlazione non vi è evidente, lanciate una ricerca sul web e vi renderete conto – come dico inascoltato da tempo – quanto forte i risultati del primo indice influenzino quelli del secondo: semplicemente meno il Paese è digitale, più il Paese è corrotto o almeno esposto a corruzione”.

In un interessante report dell’Istituto di credito austriaco Raiffeisen Bank, dal titolo “Digital approach to anti-corruption compliance”, relativo alla propria espansione in un mercato sensibile ai fenomeni corruttivi quale è quello russo, si evidenzia una netta correlazione del rapporto inversamente proporzionale fra incremento della digitalizzazione e riduzione della corruzione.

Il paper, se pur specifico per il settore bancario, evidenzia 3 step per intraprendere la digitalizzazione all’interno di procedure ABC Anti-Bribery and Corruption Compliance:

  • Puntare a scenari paper-free incrementando l’uso di firme digitali.
  • Impostazione di controlli automatici e pre-controlli (Elenchi interni / Aree di riservatezza; Elenchi PEP, Banche dati digitalizzate relativi a dipendenti e clienti/utenti; storico delle richieste digitalizzato). La verifica automatica dei registri e delle loro modifiche, oltre a rendere più celeri l’erogazione del servizio prevede il controllo incrociato segnalando automaticamente le possibili incongruenze.
  • Data Collection e analisi quantitativa (Registri elettronici, Analisi statistiche per settori, personale e attività approvate). L’uso di software per evidenziare incongruità e conflitti di interesse strutturati su best practice e serie storiche permetterebbe di incrementare notevolmente la capacità di verifiche standard a ampio spettro.

Nel report “Analytics for Integrity – Data-driven approaches for enhancing corruption and fraud risk assessments” l’OCSE sottolinea come l’avvento dell’era digitale abbia creato nuove opportunità per combattere la corruzione.

Best practice nel mondo

La Korea Fair Trade Commission utilizza il Bid-Rigging Indicator Analysis System (BRIAS), per analizzare grandi volumi di dati di enti pubblici della Corea del Sud e creare così un punteggio di probabilità per il rigging (l’atto di arrangiarsi disonestamente). In Cile, il governo utilizza il data mining del sistema di e-procurement per prevenire collusioni e favoritismi. Queste e altre iniziative si stanno moltiplicando rapidamente, permettendo ai governi di adottare strategie digitali anticorruzione che sfruttino gli open data, i big data e l’analisi dei dati.

Il Report al Capitolo 2 dall’emblematico titolo “Data Analytics for Assessing Corruption and Fraud Risks” spiega come la gestione efficace dei rischi corruttivi si basa sulla capacità delle organizzazioni di estrarre riscontri significativi dai dati attraverso analisi, strumenti e tecniche.

La catena del valore dei dati poggia le proprie fondamenta su  una capillare e completa digitalizzazione di processi, documenti e archivi. L’incapacità di eliminare la carta rende inutile qualsiasi discorso di data-driven approaches per combattere i fenomeni corruttivi. La mappatura delle banche dati disponibili permetterebbe di condurre valutazioni del rischio di corruzione in base al contesto specifico. Ad esempio, le banche dati nazionali sugli appalti, le banche dati dei fornitori degli appaltatori, le banche dati di società segnalate o sanzionate, le banche dati interne, come le banche dati per i dipendenti in materia di divulgazione di beni e conflitti di interesse, potrebbero essere tutti utili input per il processo di valutazione del rischio di corruzione.

Ciò non è ovviamente possibile o perde di efficacia al diminuire della pervasività della digitalizzazione nei processi medesimi dell’organizzazione stessa. E con questo torniamo al rapporto inversamente proporzionale bassa digitalizzazione e alta corruzione.

Tecnologie di frontiera anti-azioni illecite

L’Italia proprio per la sua natura e per sue ataviche debolezze non può rinunciare a sfruttare la forza del digitale per migliorare se stessa e combattere talune criticità. I blockchain ad esempio stanno diventando uno strumento rivoluzionario per i governi, aiutandoli a migliorare la trasparenza, la responsabilità e l’efficienza dei servizi pubblici, comprese le attività soggette alla corruzione come gli appalti pubblici e la registrazione delle proprietà.

L’intelligenza artificiale (AI) sta diventando fondamentale, fornendo un potente strumento per analizzare enormi quantità di prove nelle indagini sui reati. Ad esempio, l’Ufficio per le frodi del Regno Unito sta utilizzando l’IA per indagare sui casi di frode più rapidamente, più a buon mercato e con un tasso di errore inferiore. Allo stesso modo, l’analisi dei dati sta aiutando gli amministratori fiscali a essere più orientati ai servizi, efficaci ed efficienti, riducendo i rischi di corruzione e supportando una gestione fiscale migliore.

Rischi da digitalizzazione

Ma cosa succede se l’attore corruttivo è più digitalizzato del controllore? La digitalizzazione comporta ovviamente anche nuove insidie e sfide a cui non eravamo e non siamo ancora preparati. Il rischio evidente è che si amplifichi il divario fra efficacia del crimine, che non disdegna gli strumenti digitali per divenire ancora più invadente, e chi dovrebbe contrastare il crimine e il cyber crimine, privo dei necessari strumenti di contrasto. Ad esempio, l’anonimato di alcune criptovalute può ostacolare l’identificazione dei veri proprietari di beni, facilitando gli investimenti nella corruzione. La mancanza di trasparenza negli algoritmi dei social media, unita alla loro ubiquità e velocità, sta esacerbando i problemi relativi a propaganda e contrasto alla contraffazione.

Non possiamo rimanere indietro. Uno dei motivi per cui si è verificata la crisi del 2008 è stato il fatto che le nuove tecnologie e l’innovazione nei mercati finanziari avevano fatto progressi rapidi a tal punto che la capacità di comprensione di tali dinamiche da parte dei regolatori, legislatori e governi, era gravemente attardata e impreparata a gestire, governare e controllare le dinamiche dei mercati.

I governi dovrebbero guidare l’onda e trasformare le tecnologie digitali in strumenti al loro servizio. Ma il rischio è che ne siano travolti.

“Il quadro complessivo che emerge dal rapporto testimonia che la corruzione, benché all’apparenza scomparsa dal dibattito pubblico, rappresenta un fenomeno radicato e persistente, verso il quale tenere costantemente alta l’attenzione” si legge nel Report “La corruzione in Italia (2016 – 2020) Numeri, luoghi e contropartite del malaffare” redatto dall’ANAC.

Il CPI Index: focus sull’Italia

“L’Indice di Percezione della Corruzione (CPI) 2019 classifica l’Italia al 51° posto nel mondo con un punteggio di 53/100. Il nostro Paese guadagna solo un punto in più rispetto alla scorsa edizione lasciando la sufficienza ancora lontana e molti problemi strutturali irrisolti” si legge sulla pagina ufficiale di Trasparency Italia.

L’indice aggrega e correla 13 diverse fonti di analisi dei fenomeni corruttivi.

Nel caso dell’Italia le fonti sono 8 e ognuna ci posiziona molto lontano dalle prime della classifica (riporto per ogni fonte il punteggio assegnato all’Italia e al paese avente la migliore performance): Bertelsmann Foundation Sustainable Governance Index (I 62; Danimarca e Nuova Zelanda 97), Economist Intelligence Unit Country Ratings (I 37; Danimarca, Nuova Zelanda, Singapore, Svezia, Norvegia, Olanda, Germania, Lussemburgo, Francia, Austria, Canada 90); Global Insight Country Risk Ratings (I 59; Danimarca, Nuova Zelanda, Finlandia, Singapore, Svezia, Svizzera, Norvegia, Olanda, Germania, Lussemburgo, Islanda 83); IMD World Competitiveness Yearbook (I 44; Danimarca e Finlandia 94); PRS International Country Risk Guide (I 50; Danimarca, Nuova Zelanda e Finlandia 93); Varieties of Democracy Project (I 62; diversi paesi 77); World Economic Forum EOS (I 51, Finlandia 93); World Justice Project Rule of Law Index (I 59, Norvegia 88).

Digital divide: paesi UE e Italia

Il Digital Economy and Society Index (DESI, fonte UE) è un indicatore che somma al suo interno diversi indicatori dell’evoluzione della digitalizzazione all’interno dei paesi europei. Sebbene tutti i paesi UE stiano migrando pienamente verso una piena cultura digitale, taluni lo fanno speditamente, altri lentamente. L’Italia purtroppo è fra quest’ultimi, e questo non stupisce. Vediamo gli indicatori a cui si fa riferimento.

Dimensioni della connettività

La dimensione della connettività misura la diffusione dell’infrastruttura (offerta di banda larga fissa e mobile) e la relativa domanda. Relativamente alla banda larga fissa, l’indice misura la disponibilità e l’adozione della banda larga, veloce (Next Generation Access – NGA con almeno 30 Mbps) e ultraveloce (almeno 100 Mbps). Relativamente alla banda larga mobile misura la disponibilità di tecnologia 4G e 5G, e l’adozione della banda larga mobile.

La copertura 30 Megabit è in linea con la media europea: la velocità che permette di vedere film in streaming, fare uno smart working decente, fare lezioni online. Siamo indietro sulla copertura a 100 Megabit e oltre, velocità che serve per esempio per trasmettere immagini radiologiche ad alta risoluzione. O per fare smart working in videoconferenze mentre uno o più figli fanno video lezioni online” afferma L. Gastaldi Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale Politecnico di Milano.

Il Premier Conte nella conferenza stampa del 9 Aprile 2020 aveva detto: “Inserirei il diritto di accesso a internet in Costituzione”.

L’Europa a dire il vero lo ha già fatto, o quasi. La connettività digitale è considerata infatti un diritto sociale nell’UE.

Capitale umano e Internet

La dimensione del capitale umano è strutturato su 2 differenti parametri: “abilità degli utenti di Internet” e le “abilità e sviluppo avanzato”. Il primo è relativo alle competenze digitali, calcolate in base al numero e alla complessità delle attività che comportano l’uso di dispositivi digitali e/o Internet. Il secondo è relativo all’occupazione professionale in settori ICT e sul numero dei laureati in ICT. Bulgaria, Romania, Italia e Grecia si classificano al livello più basso nella dimensione del capitale umano di DESI.

Utilizzo dei servizi internet

Viene misurata la propensione delle persone a svolgere attività online, usando attivamente Internet per informarsi, navigare, comunicare, fare acquisti, utilizzare  servizi bancari online e molto altro. Anche in questa speciale dimensione siamo quart’ultimi anche se, volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, abbiamo registrato progressi significativi rispetto ai risultati del DESI 2018.

In Italia nel 2018 vi era ancora un 18% della popolazione che non è era mai andata in internet. Il dato rispetto al 2017 è in calo del 4%. Le persone con un basso livello di istruzione o con un reddito basso, così come gli anziani, i pensionati o gli inattivi, tendono a utilizzare Internet in misura relativamente inferiore.

Ma vediamo alcuni esempi di usi in Internet e il posizionamento dell’Italia  rispetto alla media UE e al migliore paese europeo:

  • Online banking: I 46%, UE 64%, Finlandia 94%.
  • Ricerca d’informazioni: I 12%, UE 60%, Olanda 76%.
  • E-commerce: UE 69%, 86% UK.
  • Consumo di video on-demand: I 24%, UE 31%, Svezia 61%
  • Uso dei Social networks: I 61%, UE 65%, Romania e Ungheria 86%.
  • Presenza on line su social network professionali: I 12%, UE 15%, Olanda 36%.

Digitalizzazione delle aziende

Adottando le tecnologie digitali, le aziende possono migliorare l’efficienza, ridurre i costi e coinvolgere meglio clienti e partner commerciali.

Questo indicatore misura la digitalizzazione aziendale attraverso 4 sotto indicatori (% di aziende che condividono le informazioni elettronicamente, social media, analisi dei big data e soluzioni cloud) e il “commercio elettronico” attraverso 3 sotto indicatori (% di piccole e medie imprese (PMI) che vendono online, il fatturato del commercio elettronico in percentuale del fatturato totale delle PMI, la percentuale di PMI che vendono all’estero).

L’Italia, strutturata prevalentemente in PMI, e la pervasività globale del brand “Made in Italy” mi lasciava pensare che almeno su questo indicatore avremmo fatto la voce grossa. Mi sbagliavo.

  • Business digitisation Index: I 37%, UE 42%, Olanda 77%
  • e-commerce Index: I 27%, UE 38%, Irlanda 79%.

Il Digital Intensity Index (DII) misura la disponibilità a livello aziendale di 12 diverse tecnologie digitali: internet per almeno il 50% delle persone occupate; ricorso a specialisti ICT; banda larga veloce (30 Mbps o superiore); dispositivi mobili su Internet per almeno il 20% delle persone occupate; un sito Web o una homepage; un sito Web con funzioni sofisticate; social media, uso dell’advertising; acquisto di servizi di cloud computing medio-alto, invio di fatture elettroniche adatte al trattamento automatizzato; le vendite via web di e-commerce rappresentano almeno l’1% del fatturato totale; e le vendite web business-to-consumer (B2C) di oltre il 10% delle vendite web totali. Il valore per l’indice varia quindi da 0 a 12.

La Finlandia e la Danimarca sono gli unici paesi dell’UE in cui la percentuale di imprese con un DII molto elevato (ovvero che possiede almeno 10 delle 12 tecnologie digitali monitorate).

L’Italia rientra fra i peggiori insieme a Bulgaria, Romania, Grecia, Lettonia, Spagna, Polonia, Ungheria, con la maggior parte delle imprese (oltre il 55%) che ha avuto investimenti bassi in tecnologia digitale ottenendo quindi un DII molto basso.

Servizi pubblici digitali

Con questo indicatore si misura l’implementazione delle capacità nazionali di eGovernment e eHealth. A livello di eGovernment il 64% dei cittadini dell’UE ha utilizzato i servizi pubblici online. Svezia, Estonia, Finlandia e Danimarca primeggiano, con oltre il 90% degli utenti di Internet (di età compresa tra 16 e 74 anni), che presentano moduli compilati alla pubblica amministrazione, attraverso portali governativi.

Italia e la Grecia sono i fanalini di coda europei con un rendimento inferiore al 40%.

Gli indicatori che analizzano la digitalizzazione della P.A. sono:

  • eGovernment users: % utenti che usano form online nella P.A.;
  • Pre-filled forms: % dei moduli precompilati digitalmente incrociando i dati già in possesso dalla P.A. – I 49%, UE 58%, Malta, Estonia e Lituania 82%.
  • Online service compilation: pratiche gestite completamente online – I 90%, UE 88%, Malta 100%.
  • Digital public service for business: indicatore dei servizi pubblici digitali per le imprese – I 84%, UE 85%, Danimarca 100%.
  • Open data: l’impegno a rendere pubblici i dati – I 80%, UE 64%, Irlanda 88%.
  • E-Health service: la % di persone che hanno usufruito di servizi sanitari e di assistenza online senza recarsi in ospedale o in ambulatorio medico – I 24%, UE 18%, Finlandia e Estonia 49%.
  • Medical data exchange: la % in cui i medici di medicina generale scambiano dati digitalmente con medici con altri operatori sanitari e professionisti – I 30%, UE 42%, Danimarca 88%.
  • E-Prescription: la % in cui i medici di medicina generale trasmettono digitalmente le prescrizioni ai farmacisti – I 31%, UE 50%, Svezia 100%.

Accelerazione parola chiave

Non vorrei dilungarmi troppo ma l’Italia – noi e chi verrà dopo di noi – deve procedere velocemente verso una capillare e pervasiva digitalizzazione.

Chiudo con le parole del Segretario Generala dell’OCSE, A. Gurría: “La tecnologia sta reinventando le nostre vite, le nostre società, le nostre economie. Il ritmo e le dimensioni scoraggianti della trasformazione digitale rendono solo più urgente garantire che i nostri diversi strumenti rimangano aggiornati”.

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