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Il CAD è maggiorenne: perché difendere un sistema imperfetto e complesso

Il Codice dell’Amministrazione Digitale compie 18 anni: è il momento giusto per un bilancio di quello che, pur a fronte delle diverse riforme e delle possibili ulteriori migliorie, resta il principale punto di riferimento normativo che ancora guida la transizione al digitale del nostro Paese

Pubblicato il 07 Mar 2023

Gianpiero Ruggiero

Esperto in valutazione e processi di innovazione del CNR

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In queste ore in cui si sta riaprendo la partita per la rete Tim, si ripropone il dibattito sull’attualità del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), arrivato a celebrare i suoi primi 18 anni di vita.

Le due circostanze hanno in comune di essere considerate, nella diversità degli aspetti, elementi strategici per la digitalizzazione del Paese. In attesa di vedere gli sviluppi delle vicende societarie di Tim, il compleanno del CAD è un evento da analizzare.

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CAD, un punto di riferimento per la transizione digitale

Il CAD è sicuramente il principale punto di riferimento normativo che ancora guida la transizione al digitale del nostro Paese, accompagnando le PA lungo diverse traiettorie. Grazie al Codice, infatti, le amministrazioni possono tradurre in modalità digitale i principi di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza previsti dalle norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il CAD, allo stesso tempo, fin dall’origine, ha posto l’accento sulla fase di programmazione del processo di trasformazione digitale.

L’obiettivo del legislatore è sempre stato quello di arrivare a realizzare un’amministrazione digitale, in grado di offrire servizi pubblici digitali facilmente utilizzabili, sicuri e di qualità, tali da garantire una relazione trasparente e aperta con i cittadini. Obiettivi divenuti nel tempo una necessità sempre più cogenti:

  • attribuire a cittadini e imprese i diritti all’identità e al domicilio digitale e rafforzare l’applicabilità dei diritti di cittadinanza digitale (partecipazione effettiva al procedimento amministrativo per via elettronica);
  • promuovere l’innalzamento del livello di qualità dei servizi pubblici in digitali, garantendone la fruizione online e mobile oriented;
  • promuovere l’integrazione e l’interoperabilità tra le amministrazioni e tra i servizi pubblici erogati dalle PA;
  • garantire maggiore certezza giuridica alla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici.

Sebbene il CAD non sia stato in grado di accompagnare questa necessità con prescrizioni specifiche, gli obiettivi di fondo restano ancora attuali.

Occorrono perciò interventi mirati, senza appesantire ulteriormente il carico adempimentale. Nel corso del tempo, infatti, il CAD è diventato una corposa raccolta di norme, che ha subito continue modifiche, le ultime delle quali di qualche settimana fa in materia di digitalizzazione del processo civile e degli atti processuali. “Nel tempo si è tramutato in un coacervo di buoni principi, regole tecniche e disquisizioni metafisiche su strategie che (purtroppo) cambiano ogni anno” è stata la posizione espressa un anno fa su questa rivista.

Le molte riforme del Codice e l’impatto atteso: un bilancio

Con i vari interventi normativi si è tentato più volte di razionalizzarne i contenuti. Si è proceduto a un’azione di deregolamentazione, sia semplificando il linguaggio, sia sostituendo regole tecniche, divenute obsolete, con linee guida a cura di Agid, con la speranza di poter stare al passo con la rapidità e reattività rispetto all’evoluzione tecnologica.

È giusto allora porsi la domanda se le numerose “riforme” del Codice, siano o meno fin qui riuscite a garantire alla norma una piena attuazione e l’impatto atteso. Oggi, quindi, nel giorno del suo anniversario, è giusto interrogarsi se il CAD abbia o meno raggiunto i suoi scopi, tracciando un bilancio della sua attuazione, per comprendere quali sono gli ostacoli per la sua piena attuazione.

Organizzazione e efficientamento della PA

Misurata esclusivamente attraverso l’utilizzo di Spid, Cie, App IO e PagoPA, la digitalizzazione della PA sembrerebbe funzionare, tanto da esigere una posizione migliore rispetto a quella attuale, che pure negli ultimi due anni ha fatto registrare un cambio di passo significativo. Lo confermano i numeri di Agid e del Dipartimento per la Trasformazione Digitale che, per quanto riguarda il 2022 e l’utilizzo di questi servizi, segnalano il raggiungimento di nuovi massimi storici. L’impressione è che la politica finora abbia puntato tutte le sue fiches sulle piattaforme abilitanti, che hanno assorbito quasi tutte le risorse a disposizione.

Ma, come ha scritto Sergio Sette, “la vera chiave di volta per l’innovazione digitale delle PA, uno dei pilastri del CAD, è l’articolo 41 (Procedimento e fascicolo informatico) che ancora fatica a concretizzarsi. L’art. 41 parla sì di procedimenti e fascicoli, concetti, specie il secondo, poco di moda nelle PA, considerati quasi obsoleti e irrilevanti, ma lo fa in un modo tale da descrivere attraverso la loro relazione, un vero e proprio modello implementativo di tutti gli aspetti salienti del Codice. Infatti, l’articolo 41 rende chiaro, contestualizzandoli, lo scopo e il ruolo di SPID, CIE, IO e PagoPA, che altro non sono che dei componenti funzionali standardizzati. Funzionalità necessarie ma pur sempre accessorie, o se preferiamo “abilitanti”. Resterebbe da costruire “tutto il resto”. Tutto il resto, senza il quale, non hanno alcuna utilità. Tutto il resto, e non è poco, ha a che fare con l’organizzazione e l’efficientamento della PA”.

Nei commi 1 e 2 dell’articolo 15 del CAD, viene esplicitato il rapporto fra la riorganizzazione, e la trasformazione della PA, descritte nell’articolo 12, con la sua Digitalizzazione.

“La riorganizzazione strutturale e gestionale delle pubbliche amministrazioni volta al perseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 12, comma 1, avviene anche attraverso il migliore e più esteso utilizzo delle tecnologie dell’informazione […]”

“In attuazione del comma 1, le pubbliche amministrazioni provvedono in particolare a razionalizzare e semplificare i procedimenti amministrativi, le attività gestionali, i documenti, la modulistica, le modalità’ di accesso e di presentazione delle istanze da parte dei cittadini e delle imprese, […] in conformità’ alle prescrizioni tecnologiche definite nelle Linee guida”.

È ancora molto attuale il suggerimento avanzato da Sette un anno fa: “Quindi, in generale, per raggiungere gli obiettivi di cui all’articolo 12, si deve estendere e migliorare l’uso delle tecnologie in modo però coerente con le altre attività chiave correlate, che sono la razionalizzazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi. Un enorme lavoro, da svolgere primariamente nel back office dell’amministrazione e di cui, ad oggi, oggettivamente, si è visto poco”.

Processi e procedimenti

Parlando di processi e procedimenti, non possiamo non citare l’intervento del legislatore che ha introdotto l’obbligo per le amministrazioni di redigere il Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO), un nuovo adempimento semplificato per le pubbliche amministrazioni.

Cos’è il PIAO

È stato introdotto all’articolo 6 del decreto legge n. 80/2021, il cosiddetto Decreto Reclutamento, e prevede che ciascuna amministrazione indichi l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare, secondo le misure previste dall’Agenda Semplificazione e, per gli enti interessati dall’Agenda Digitale, secondo gli obiettivi di digitalizzazione. Il PIAO deve comprendere non solo la pianificazione delle attività, ma anche la graduale misurazione dei tempi effettivi di completamento delle procedure effettuata attraverso strumenti automatizzati. Si tratta, anche in questo caso, di un intervento legislativo teso a “spingere” le amministrazioni a ripensare se stessi, a modificare i propri assetti organizzativi e a rendere conto ai cittadini dei miglioramenti raggiunti.

Non è dato sapere se il PIAO riuscirà dove hanno fallito tante leggi. Ma una legge, pur con le sue buone intenzionalità, è sempre solo l’inizio di un processo. Ogni legge, anche la più innovativa, da sola non basta. Può funzionare solo se ci credono per primi i suoi destinatari.

Per diversi anni il CAD è rimasto confinato tra gli addetti ai lavori, senza incidere realmente nell’organizzazione degli uffici pubblici e nei rapporti tra pubblica amministrazione, cittadini e imprese. La crisi pandemica è stato un acceleratore di processi, portando alla luce tutti i difetti del Codice e tutti i ritardi accumulati dalle amministrazioni. Oggi molte di loro sono alle prese con la presa di coscienza della realtà, ovvero di essere incapaci di recepire appieno le innovazioni, di ridefinire in chiave digitale i processi, di adeguare l’organizzazione del lavoro e ammodernare i propri sistemi gestionali.

La Posta elettronica certificata

Un esempio su tutti è la Posta elettronica certificata (PEC). Con circa 15 milioni e 500 mila caselle attive alla fine del 2022, la PEC sta avendo un ruolo trainante tra le tecnologie digitali, riuscendo a dare vita ad un sistema di comunicazione destinato a cambiare e migliorare le abitudini di milioni di utenti. Ma quante sono le amministrazioni che hanno adeguato i propri sistemi di comunicazione certificata, abbandonando vecchi standard e adeguandosi a quelli nazionali e a quelli europei (basati sull’utilizzo del protocollo di trasporto REM)? Le amministrazioni virtuose sono poche e quelle più avanzate sono costrette a gestire numerose deroghe ed eccezioni che affossano il processo di miglioramento continuo.

Il crepuscolo della PEC: arriva la REM, ecco cos’è e come funziona

Il più delle volte ci si illude di aver contribuito alla dematerializzazione, semplicemente perché si è inviato un documento analogico, con apposta firma autografa e formato pdf, in allegato a una PEC, confondendo il mezzo di trasmissione con la generazione di un documento nativo digitale. Situazioni che accadono più frequentemente di quanto si immagini, anche a livelli apicali di gabinetti ministeriali. Comportamenti che hanno svilito alcuni indispensabili presidi di garanzia per l’integrità, la sicurezza e l’imputabilità giuridica, che dovrebbero essere le principali caratteristiche dei documenti amministrativi idonei a comporre l’archivio di una PA. Ma chi avrebbe nell’amministrazione la forza di contestare la non validità di un foglio scansionato, con la firma olografa di un ministro, che resta “manifesta e inequivoca”, mettendosi contro il potere del politico di turno?

I servizi al cittadino

Se le amministrazioni dello Stato faticano a dematerializzare, le cose non vanno meglio per i servizi al cittadino. Ormai molti di noi hanno la PEC e sono dotati di SPID. Nonostante i costi di gestione e manutenzione di questi sistemi a carico della PA (cifre importanti!) e tralasciando il peso burocratico a carico del cittadino, che deve sostenere obbligatoriamente per avere SPID e PEC, al di là di pochi casi, sono ancora pochi i servizi qualitativamente offerti a chi desidera sposare un pieno abbandono della carta, risparmiare tempo e ridurre gli spostamenti. Se gli sportelli degli uffici postali sono sempre intasati e rimangono ancora il canale privilegiato per pagare bollette e inviare una raccomandata, un motivo ci dovrà pur essere.

Forse l’aspetto più rilevante presente nel CAD è l’introduzione nel nostro ordinamento di un nutrito elenco di diritti in capo a cittadini e imprese. Il cittadino oggi si aspetta che l’agire amministrativo, in chiave digitale, sia sviluppato come specifica concretizzazione dei suoi diritti. Purtroppo, il più delle volte, si è assistito a una riedizione, più digitale, della precedente burocrazia analogica. La burocrazia non ama l’innovazione, tanto meno quella digitale. Peraltro il nostro rapporto di fruitori della tecnologia cambia rispetto a quello di fruitori di servizi pubblici digitali. Da consumatori valutiamo i prodotti disponibili, li scegliamo e, se non siamo soddisfatti, li scartiamo a favore di quelli offerti dalla concorrenza. Ai servizi pubblici disponibili sullo «store civico» accediamo per necessità. In alcuni casi per obbligo. Se quel servizio non ci soddisfa, non abbiamo scelta e quasi sempre la possibilità di «uscita» ci è preclusa.

Infine, le istituzioni pubbliche non operano alle condizioni del mercato. Diversamente dalle aziende private, l’amministrazione pubblica non può concentrarsi solamente sulla garanzia di un’esperienza gratificante. È vincolata al dovere di offrire un servizio di qualità elevata. Cioè trasparente e che faccia un uso ragionevole delle (poche) risorse disponibili. Soprattutto, che sia inclusivo. Questi vincoli si traducono in altrettante complicazioni. Alcune sono normative. Altre di design.

Piano Triennale per l’informatica nella PA e RTD

In questo senso, anche il Piano Triennale per l’informatica nella PA e la nomina del Responsabile per la transizione al digitale, figura introdotta nel 2018, non sono riusciti a dare organicità ai poteri e alle attività prevista dal CAD.

Fin dalla sua prima edizione, il Piano Triennale ha rappresentato il documento di supporto e di orientamento per le PA. Se nella precedente edizione (PT 2021-2023) il Piano prefigurava un quadro di sintesi degli investimenti nel digitale nell’ambito della Strategia Italia Digitale 2026, in quel momento appena pubblicata, l’aggiornamento 2022-2024 del PT è caratterizzato dalla presenza sempre più pervasiva del PNRR, che dovrebbe rappresentare una straordinaria opportunità di accelerazione della fase di execution della trasformazione digitale della PA. In questa fase di rilancio della transizione digitale generata dalla Missione 1 del PNRR, diventa importante che tutti i soggetti coinvolti abbiano cognizione di causa di ciò che comporta l’attuazione del PNRR: iniziative di ampia portata, complesse da un punto di vista tecnologico, amministrativo e gestionale, da svolgere in tempi ristretti, per concludersi entro fine 2025.

L’enorme problema di gap di competenze

Ma la transizione digitale, che ha un orizzonte temporale che va oltre le scadenze del Piano triennale e del PNRR del PNRR, si scontra con un enorme problema di gap di competenze. Mancanza di cultura digitale nelle amministrazioni pubbliche e carenza di competenze nella popolazione. Un capitale umano scarsamente propenso al digitale, che di fatto impedisce il consolidamento del processo di cambiamento guidato dalle moderne tecnologie.

Lo sviluppo di competenze digitali, in termini di bagaglio culturale e conoscenza diffusa, è un problema atavico del nostro sistema, più volte messo in evidenza dagli indicatori DESI. In questi ultimi anni si sta cercando di porvi rimedio con la “Strategia nazionale per le competenze digitali” e il relativo Piano operativo nell’ambito dell’iniziativa strategica nazionale Repubblica Digitale. A questa attività si stanno aggiungendo iniziative “verticali”: la formazione specifica sui temi della qualità dei dati, dell’accessibilità, della security awareness, del governo e della gestione dei progetti ICT, rivolta a tutti i dipendenti della PA; la formazione e l’aggiornamento sui temi della trasformazione digitale e del governo dei processi di innovazione per i Responsabili per la Transizione al digitale.

Il consolidamento del ruolo del Responsabile per la transizione al digitale

Per quanto riguarda la nomina e il consolidamento del ruolo del Responsabile per la transizione al digitale, per nella consapevolezza che un unico soggetto non sarà mai in grado, da solo, di contribuire a sfidanti processi di cambiamento e innovazione, a settembre 2022 risultano ancora da nominare quasi 4.000 RTD nelle PA, di cui circa la metà nelle amministrazioni comunali, in particolare di piccole dimensioni. Da questo punto di vista, si rende necessario sensibilizzare le PA su tale adempimento e definire e attuare modelli e pratiche volti all’individuazione della funzione RTD anche in forma associata.

Neanche la previsione di sanzioni, in caso di mancata pianificazione del processo di trasformazione, sono state un deterrente. La disciplina per la vigilanza e per l’esercizio del potere sanzionatorio, previsto all’art. 32-bis del CAD, è oggetto del “Regolamento recante le modalità per la vigilanza“, emanato da Agid e in vigore dal 12 novembre 2022. Se Agid esercita poteri di vigilanza, verifica, controllo e monitoraggio sul rispetto delle disposizioni del CAD e di ogni altra norma in materia di innovazione tecnologica e digitalizzazione della pubblica amministrazione, nel suo ultimo rapporto si legge che “nel 2021 per 3 procedimenti avviati a seguito di segnalazioni, è stata attivata la fase sanzionatoria, dei quali due (riuniti) in ambito SpID e l’altro in ambito QTSP, e che le attività istruttorie risultavano ancora in corso”. Nel corso del 2021 solo 1 procedimento, avviato a fine 2020, è arrivato a conclusione e si concretizzato nel pagamento in oblazione di circa 160 mila euro.

Il 18 compleanno del CAD chiama tutti a una riflessione profonda, che va oltre il solo utilizzo delle tecnologie. Quali aspetti istituzionali, organizzativi e sociali, sono utili, funzionali, necessari per migliorare i rapporti tra Stato, cittadini e amministrazione; di quale “corpo” amministrativo abbiamo bisogno oggi, nella società dell’informazione, della trasparenza, della partecipazione?

È chiaro a tutti che il CAD da solo non basta, peraltro, sembra soffrire di un peccato originale. Norme scritte da un legislatore, spesso incompetente, che hanno complicato inutilmente processi che avrebbero invece potuti essere semplificati. In ogni caso, il Codice, con tutte le sue imperfezioni e complessità, scarsa sistematicità e incompiutezza, resta un corpo normativo ancora in grado di rivoluzionare la PA in chiave digitale.

Un sistema complesso che va difeso

Un sistema complesso che va difeso. È questo l’insegnamento più importante che il CAD ci regala. La partita della transizione al digitale non si gioca solo sul tavolo tecnico, dove c’è molto da fare. Un secondo tavolo è quello culturale e narrativo. La narrazione della transizione al digitale deve riappropriarsi del concetto di complessità. Occorre che ci sia più consapevolezza su questo punto e che, con sano realismo, si arrivi alla convinzione che la chiave di volta non è la tecnologia da sviluppare (cioè dalla scelta del software o del partner tecnologico, che sono l’ultimo anello della catena), ma la consapevolezza di dover compiere un percorso.

Gianluca Sgueo, autore del libro pubblicato con Egea Il divario – i servizi pubblici tra aspettative e realtà, invita a legare la narrazione della transizione al digitale al concetto di complessità, evitando che questo diventi un freno all’agire: “l’idea di complessità̀, che il digitale ci spinge a trascurare, a fuggire addirittura, non può sparire dall’immaginazione e dalla narrazione del sistema pubblico. Governare rimane un’azione complessa. Occorre tempo per recepire, valutare e poi appianare le divergenze tra interessi in gioco, per tutelare tutti i destinatari”.

Conclusioni

È evidente che di fronte a queste sfide, gli atteg­giamenti rassegnati o rinunciatari vanno rapidamente dissipati, per far posto a un rinnovato impegno nella creazione delle condizioni e delle soluzioni più idonee allo sviluppo di una società digitale, con tutto ciò che questo comporta.

È richiesto innanzitutto guardarsi dalla “illusione del legislatore”, ovvero pensare che basti una legge per attuare un vero cambiamento. Una buona legge può abilitare una possibilità, ma occorre poi che le amministrazioni la sappiano cogliere, coltivandola con un lavoro di accompagnamento al cambiamento. Servono meno giuristi e più ingegneri, economisti ed esperti di lavoro in rete; meno adempimenti e più coraggio per un’apertura vera delle amministrazioni alla collaborazio­ne con il mercato e con i cittadini. Servono perciò nuovi modelli di amministrazione, più aperte verso nuovi paradig­mi gestionali.

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